Per alcuni solo una moda, per altri una via che conduce al rispetto del vino nel suo rapporto con il terroir. In realtà l'anfora è un contenitore antichissimo che ha fatto viaggiare nel mondo vino, olio e cereali. Tra Italia e Slovenia abbiamo gli esempi più famosi di vino in anfora, che molto devono alla tradizione dei vini georgiani.
Acciaio, legno, cemento e…anfora. Il vino vanta diversi contenitori per fermentazioni e affinamenti e la scelta di questi spesso è dettata anche dalle mode. Dopo gli anni delle etichette "vanigliate" (il sentore rilasciato dai legni piccoli) ci si è orientati su vini più autentici, che preservassero i profumi basici grazie all'uso dell'acciaio e del cemento. Verso gli inizi degli anni 2000 si è affacciata, nel settore, la pratica dell'uso delle anfore. Un contenitore antichissimo, in verità, che affonda la sua storia nella notte dei tempi; ma negli ultimi vent'anni si è parlato soprattutto di quelle georgiane, i Qvevri, le anfore caucasiche divenute poi Patrimonio dell'Unesco. Erano i contenitori in terracotta per chi faceva vino nel paese dell'ex Unione Sovietica, la Georgia che è anche culla della tradizione vitivinicola indoeuropea, dove le prime tracce di vinaccioli risalirebbero addirittura al 6000 a.C. Il vino in anfora oggi è di moda, ma il background di questo contenitore è assai antico: in giare di terracotta, infatti, si sono sempre conservati diversi alimenti, in primis l'olio di oliva, mentre ora si utilizzano anche per affinamento di gin e birre.
Dicevamo della Georgia e delle prime tracce enologiche risalenti a 6000 anni fa. La forma di questi contenitori – almeno quelli con i manici – è motivata dal trasporto via nave. Per secoli infatti un numero incalcolabile di giare ha viaggiato in tutto il mondo antico tra Egitto, Magna Grecia e Impero Romano, per trasportare anche pesce e grano tra gli imperi. Il materiale scelto – l'argilla – ha sempre consentito trasporti leggeri, mentre la possibilità di chiusure ermetiche con cera d'api e resina assicuravano il non deterioramento del contenuto.
In Georgia e in Armenia i Qvevri sono sempre stati interrati, almeno fino alla primavera successiva all'introduzione del mosto, per far partire e svolgere la fermentazione: solo successivamente avveniva l'affinamento. Qualche millennio dopo, il legno comincerà a prendere il sopravvento, in particolare nelle zone che attualmente corrispondono all'Alto Adige, alla Baviera e all'Austria, dove le popolazioni celtiche avevano maggior confidenza con questo materiale. Poco alla volta testimonianze di anfore per l'uso del vino andarono sparendo: se ne continuò a fare uso in Spagna, nella zona della Mancha, e anche in Puglia con contenitori detti capasoni. In effetti Georgia, Spagna e Italia sono ancora i tre produttori principali al mondo di anfore, con peculiarità personali che variano a seconda della tecnica di produzione e delle argille utilizzate: ma è la zona caucasica a non aver mai interrotto questa tradizione.
La motivazione Unesco che le ha rese Patrimonio Immateriale dell'Umanità rende bene l'idea dell'uso domestico che è ancora in voga da quelle parti: "Il metodo di vinificazione Qvevri prende il nome dal particolare vaso di terracotta ovale, il Qvevri appunto, in cui il vino fermenta ed è riposto, in uso nei villaggi e nelle città di tutta la Georgia. La tradizione gioca un ruolo vitale nella vita di tutti i giorni e nelle festività, insieme al vino e alle vigne frequentemente evocate nelle tradizioni orali e nelle canzoni, costituisce una parte inseparabile dell’identità culturale delle comunità georgiane. La conoscenza di questo patrimonio è stato tramandato dalle famiglie, dai vicini e dagli amici, tutti coloro che partecipano alle attività condivise di vendemmia e vinificazione".La produzione di vino per uso domestico in Georgia è ancora diffusa e pare che ci siano circa un milione di Qvevri ancora in uso.
La capienza dei tradizionali Qvevri varia dai 100 ai 4000 litri, non hanno manici perché nascono per essere interrati e dunque stanziali. Le anfore oggi in uso che prendono spunto dalla tradizione georgiana sono in terracotta non smaltate. Possono essere ricoperte da un sottile strato di cera d’api all'interno e da un involucro sottile di calce all'esterno, per una maggiore protezione. Bisogna pensare all’argilla come qualcosa a metà tra l’acciaio e il rovere: il primo crea un ambiente privo di ossigeno ed è un materiale inerte, che non rilascia alcun gusto nel vino; il legno invece consente un’ossigenazione e i suoi tannini influenzano l’aroma e il sapore del liquido.
L’interramento consente un controllo naturale della temperatura, sia in fase di fermentazione sia in fase di di affinamento. Molti di più in verità sono i produttori che adottano anfore posizionate all’aperto.
Come il rovere, l’argilla è porosa, quindi consente un minimo di passaggio di ossigeno – cosa che a detta di molti produttori conferisce al vino maggiore profondità – ma, come l’acciaio, è un materiale neutro e quindi non segna lo spettro aromatico. Le lamentele comuni sulle anfore prodotte tradizionalmente sono: troppo ossigeno, aromi impartiti dall'anfora, crepe e perdite, difficoltà di igienizzazione. Ma, negli ultimi anni le aziende produttrici – tra le quali le italiane Artenova a Impruneta, alle porte di Firenze, e la trentina Tava – stanno lavorando alla riduzione della porosità grazie a fori più piccoli. per fare questo, servono temperature di cottura altissime ed è impossibile che l’argilla resista: da qui lo studio di miscele più resistenti. Le alte temperature inoltre pare garantiscano anche minore migrazione di elementi rilasciati dal contenitore e meno modifiche chimiche al vino; infine, fori più piccoli significa meno porosità e dunque maggiore facilità di pulizia.
Il vino in anfora in Italia è sinonimo di Joško Gravner. Il produttore di “frontiera”, perché a metà tra Collio Goriziano e Collio Sloveno, ha dato il via all’uso dei contenitori in argilla nel Paese, ma non solo: in molti nel mondo guardano ai suoi vini come un esempio da emulare. La fama di Gravner e di altri produttori della stessa zona, uno su tutti Radikon, ha dato vita a un vero e proprio “movimento enologico”, la cosiddetta Amber Revolution, ovvero la strada non convenzionale ai vini ambrati.
L’uso delle anfore in questo caso si sposa a un metodo di vinificazione, anche questo ereditato dalla cultura caucasica: si tratta di prolungate macerazioni del vino sulle bucce, soprattutto delle uve bianche, che i locali riconoscono come, appunto, vino ambrato. Un aspetto vitale della ricetta storica è la fermentazione e l'affinamento di questi vini negli enormi vasi di terracotta. Joško Gravner si è affidato al metodo “Kakheto”, utilizzato nella Georgia orientale, che prevede l’utilizzo nel mosto delle vinacce (chacha in georgiano) complete di bucce, vinaccioli e raspi. Il suo metodo ha avuto un tale riscontro che quando il produttore di Oslavia si reca a Tblisi per fiere o nuovi ordini, la gente del vino lo riconosce, gli stringe la mano, vuole un selfie con il vignaiolo che ha rilanciato l'uso delle anfore georgiane.
I documenti archeologici mostrano che i viticoltori di tutta la penisola italiana, Sicilia in testa, trasportavano vino in anfore di argilla fin dall'età del rame ed è possibile che anche loro facessero fermentare e invecchiare il vino in questi vasi. In questo contesto storico si è mosso Giusto Occhipinti, co-proprietario dell'Azienda Agricola COS di Vittoria, in Sicilia. La sua scelta è caduta sulle anfore spagnole chiamate Tinajas, prodotte in l’Andalusia e nella regione autonoma di Castilla-La Mancha: anche qui, nel 2000, è stato scelto l’interramento di ben 150 contenitori per fermentare e affinare il suo Cerasuolo di Vittoria. Poco dopo, su consiglio dello stesso Giusto, arriva l’azienda trentina di Elisabetta Foradori che inizia a lavorare la Nosiola in anfore spagnole. La sua scelta è tutta in queste parole: “Dialogare con un elemento come l’argilla, come la terra, è qualcosa che dà continuità al lavoro iniziato in campo”.