Il brandy è un distillato di vino molto particolare, anche se non è molto amato dai bartender e si porta dietro una pessima reputazione, a causa del suo uso al cinema. Ma la sua storia è davvero interessante: parte grazie agli alchimisti islamici che lo usavano per fini medicinali e approda in Andalusia, da dove si è diffuso in tutto il mondo, grazie all'Epoca delle Grandi Esplorazioni.
Il brandy, il distillato color ambra che si ricava dal vino e si fa invecchiare in botte per diversi anni. Un’acquavite che porta con sé un’aura di leggenda cupa, oscura, quasi sempre legata a momenti tetri della vita delle persone. Non c’è un motivo reale collegato alla pessima reputazione del brandy: sta di fatto che il cinema lo ha sempre messo in mano agli alcolizzati. Come ne "L’ultima spiaggia", un capolavoro anni ‘50 di Kramer in cui Fred Astaire, alcolista, preferisce il brandy al gin perché ne può bere di più e lo dice mentre litiga con Ava Gardner. Anche George Best ha “incolpato” il brandy delle sue patologie: il fenomeno del calcio britannico degli anni ‘70 è stato infatti ritratto numerose volte con una bottiglia di brandy in mano. Pessima reputazione appunto, ma il distillato non ha colpe, anzi: pensate che il brandy nasce infatti come un medicinale.
Il nome è anglosassone, non c’è dubbio. Deriva dall’olandese brandewijn, cioè vino bruciato (distillato) che gli inglesi hanno trasformato in brandwine, abbreviato poi in brandy. Il distillato non nasce né in Olanda né in Inghilterra però, ma con il califfato degli Omayyadi durante l’espansione araba.
Proprio così: il brandy, un alcolico da 40 gradi, nasce grazie ai musulmani. Intorno al 1300 gli alchimisti islamici cercavano cure per le crisi respiratorie con gli alambicchi, provando a purificare le bevande trovate nel corso dell’espansione in Africa Mediterranea e in Europa Meridionale. Per questo motivo i primi europei a produrre brandy sono stati gli spagnoli delle colonie sud-occidentali e, tutt’oggi, il brandy di Jerez de la Frontera, una città quasi al confine col Marocco, è tra i migliori al mondo.
Con gli anni in Andalusia la tradizione del brandy si sedimenta e quando un gruppo di monaci parte alla volta di Dublino, anche gli stati dell’Impero Britannico entrano in contatto con il distillato. La diffusione del brandy la dobbiamo però agli olandesi, i più importanti mercanti di vini e spirits al tempo delle grandi esplorazioni. Grazie ai loro rapporti col Portogallo, che importava il distillato dalla Spagna, sono venuti a contatto con il brandewijn e lo hanno esportato in tutto il mondo.
Ma cos’è che rende questo distillato così caratteristico? Molto è dovuto al metodo di produzione secondo Carmelo Licata, giovane bartender del Dry Martini di Sorrento, la splendida terrazza del Majestic Palace che, oltre al bar, ospita anche il Don Geppi, ristorante Una Stella Michelin con lo chef Mario Affinita. Licata ci racconta che “Il punto focale per la creazione di un ottimo brandy è la materia prima usata a monte. Il vino bianco di qualità, senza solfiti, senza conservanti, senza difetti, per evitare sgradevoli sapori nel prodotto finale dopo la distillazione. In Italia si usa molto il Trebbiano, un vitigno usato anche in Francia ma lì le cose sono un po’ diverse”. Ma prima di addentrarci nella dicitura di brandy-cognac, vediamo come si fa il brandy.
Una volta selezionata l’uva di qualità, la distillazione può essere di due tipi: continua o discontinua. Non ci sono differenze con gli altri distillati, la distillazione è quindi doppia, classica, con la caldaia riempita di vino e scaldata col vapore. Questo questo inizierà a salire, attraverserà il collo dell’alambicco per finire nel refrigeratore dove si condensa.
Anche per il brandy alla prima distillazione si scarta testa e coda, piene di sostanze sgradevoli, che vengono distillate a loro volta separatamente. Una volta distillato si passa poi all’affinamento in botte, la fase che trasforma il distillato in vero brandy.
“Il passaggio in botte è fondamentale” ci dice Carmelo Licata, “perché il legno rilascia sapori, profumi e colore che ritroviamo in degustazione. Dopo la distillazione il brandy è trasparente”. Le botti da usare sono molteplici e secondo il disciplinare deve essere invecchiato almeno un anno per avere l’etichetta di “brandy”. C’è chi usa la quercia dell’Allier e del Limousine, c’è chi usa botti nuove e chi botti vecchie, o ancora chi le usa entrambe, tutto sta nelle mani dei produttori.
La lavorazione è molto lunga e certosina, ogni passaggio aggiunge caratteristiche, trasforma il prodotto e il risultato finale dipende dalla sensibilità del mastro distillatore, che dovrà stare attento anche alla gradazione del prodotto, da regolare in base al tocco personale. Il prodotto esce dagli alambicchi con una gradazione intorno al 70%, quindi il produttore deve “allungare” il brandy con l’acqua, per far scendere il potere alcolico. Viene anche miscelato ad altri distillati e ad altre distillazioni durante la maturazione per migliorare il senso olfattivo.
L’affinamento dura solitamente tra i 3 e i 5 anni fino ad arrivare a brandy affinati 30 o anche 40 anni: ma in questi casi si può parlare più di marketing che di risultato, perché in tutto questo tempo il potere gustativo si perde.
Tecnicamente no, il brandy non ha un’annata, anche se molti la scrivono. Come abbiamo detto, in botte il brandy viene miscelato ad altri distillati di varie annate differenti: per legge in etichetta va segnata l’età del prodotto più giovane usato. Un brandy del 2018 potrebbe tranquillamente avere un vino del 1960, tanto per fare un esempio: quindi l’annata di un brandy non è importante ai fini della qualità e della scelta del prodotto.
Ricordiamo che il “brandy è un distillato pregiato, non tutti lo bevono e non tutti lo capiscono. Più che l’annata, il cliente deve chiedere la provenienza del prodotto e “i migliori sono il cognac, l’armagnac e i brandy italiani” dice Licata.
Sì, il cognac è semplicemente il brandy francese: “La Francia si è voluta distaccare dalla denominazione mondiale” dice Carmelo Licata, “dando un’accezione geografica al proprio prodotto. Abbiamo così Cognac e Armagnac, i due brandy francesi tutelati dal marchio Aoc, il corrispettivo della nostra Doc, e prendono il nome dalle contee in cui vengono prodotti”.
Il bartender aquilano ci tiene a sottolineare che “i migliori brandy sono francesi e italiani perché sono le due nazioni di punta nel mondo del vino, quindi la qualità della materia prima è superiore. C’è anche un altro fattore che tutela tutti i brandy europei e li rende migliori di quelli americani: in Europa i produttori sono obbligati a usare solo i vini sani, negli Stati Uniti è permesso usare anche scarti di vino quindi la qualità ne risente”.
“Guai a mettere il ghiaccio” l’ammonimento di Carmelo Licata. Nulla di nuovo sotto al sole, anche in altri distillati abbiamo raccontato di come il ghiaccio vanifichi il grande lavoro fatto dai distillatori. Il brandy è un prodotto che soffre molto sul mercato, sia per la cattiva fama di cui abbiamo parlato, sia perché pullula di produzioni di bassa qualità.
La cosa importante da vedere prima della degustazione è la zona di produzione e preferire il Cognac, l’Armagnac, il brandy italiano, spagnolo o il metaxa, che sarebbe il brandy greco. Va servito nel baloon e, per migliorare le note da sentire in degustazione, è bene riscaldare il brandy con il calore delle mani.
In mixology non è molto usato perché a causa del bouquet sensoriale che lo compone è molto difficile da bilanciare. Ci sono drink famosi con il brandy, come l’Alexander, il Crusta o il French Connection ma la cosa migliore per questo distillato è gustarlo in purezza, con un sigaro e un pezzo di cioccolato fondente.
A differenza degli altri distillati, il brandy è particolarmente adatto all’uso in cucina. Questo è un distillato dolce ed è il perfetto accompagnamento dei dessert al cioccolato. Le spezie, il corpo e il calore del brandy sono perfetti per tagliare il gusto burroso, amaro e complesso del cioccolato. Questo distillato è usato anche come ingrediente e non solo come accompagnamento. Ottime sono le torte al brandy, o i biscotti per non parlare delle sfumature con la pasta. Provate a sfumare il brandy con il filetto di vitello o ancora meglio con pesci e crostacei. Tutte le note speziate del distillato si trasferiscono al piatto rendendo il tutto molto più gustoso.
Come detto i migliori brandy che possiamo trovare sul mercato sono francesi e italiani. Licata ci dice che non serve andare su bottiglie pregiate da 400 o 500 euro, perché brandy di altissima qualità si possono trovare anche intorno ai 30 euro.
Cominciamo da casa dunque con un brandy nobile ma dal prezzo più alto: il Vecchia Romagna invecchiato 25 anni in botti di legno pregiato, al costo di 100 euro. Il colore è ambrato intenso, con un profumo avvolgente di uvetta e zenzero. Al palato è armonioso, morbido ed è destinato ai fruitori più esigenti.
Abbiamo parlato di ottimi brandy sui 30 euro però e Carmelo Licata ci suggerisce il prodotto che usa al bar in miscelazione, lo Stock 84, un distillato maturato in botti di rovere molto morbido e piacevole al palato con una ricetta immutata da oltre 100 anni.
Passando alla Francia e al Cognac suggeriamo un Liqueur au Cognac Poire di François Peyrot, al costo di 31,50 euro. Colore luminoso, sentori fruttati con forti note di pera.
Per l’Armagnac consigliamo, allo stesso prezzo del Cognac, il Bas Armagnac V.S. "Signature" dello Chateau de Laubade, un distillato dal color oro e dal sentore di arancia, pera e note floreali. Morbido al palato, con note di vaniglia e frutta matura.
Per la Spagna scegliamo il Brandy Lepanto Solera Gran Reserva di Gonzalez Byass, al costo di 28 euro, un distillato di vino Palomino invecchiato seguendo il Metodo Solera in botti di Sherry. Tanta complessità aromatica con note fresche e vinose di frutta secca.
Infine concludiamo il nostro viaggio in Grecia, con il Metaxa Brandy 12 Stelle: un distillato invecchiato 3 anni in botti di quercia di Limosino, dal color ambrato scuro e dalle note aromatiche al sapore di cedro.