È nato prima il tarallo napoletano o quello pugliese? E perché si dice "finiamo a tarallucci e vino"? I taralli sono da sempre presenti nella nostra gastronomia e nel nostro lessico: vediamo insieme la loro storia, dalla nascita del tarallo fino ai giorni nostri cercando di capire le similitudini e le differenze tra le varie tipologie.
Il re degli snack e dello street food del Mezzogiorno è senza ombra di dubbio il tarallo: un anello di pasta non lievitata composto da farina, olio, sale, acqua (o vino) a cui vengono aggiunti diversi ingredienti per insaporirlo a seconda della zona di provenienza. Celeberrimi i taralli pugliesi e i taralli napoletani, in realtà esistono varianti in tutta Italia. Vediamo dunque tutti i segreti del tarallo, la sua storia e le curiosità su questo sfiziosissimo prodotto da forno.
Da dove nasca la parola "tarallo" non è noto con certezza. Ci sono però molte ipotesi per una domanda che i linguisti si pongono da tempo e che non trova una risposta univoca. La più accreditata è che derivi addirittura dal greco "daratos", una sorta di pane molto usato in epoca ellenistica. Altre ipotesi sono il latino "torrère", ovvero abbrustolire; il francese "toral", l'essiccatore e l'italico "tar", facendo riferimento alla forma tondeggiante. Tutt'oggi non c'è una risposta ben precisa a questa domanda.
Sebbene non ci siano certezze sull'etimologia, siamo invece abbastanza fortunati sulla storia del tarallo, soprattutto nella sua variante partenopea, perché è stato un successo così clamoroso da aver attirato le luci della ribalta nella Napoli del 1700. Ne parlano diversi giornalisti e perfino Matilde Serao nel suo Ventre di Napoli.
La prima volta che incontriamo i taralli è però molto prima: bisogna tornare indietro fino al XV secolo, un periodo cupissimo della storia del Meridione e della Puglia in particolare: tantissime carestie e cambi di potere con la caduta degli Angioini, la definitiva annessione di Taranto al Regno delle Due Sicilie e la salita al trono degli Aragonesi. Tutto ciò crea enormi disagi negli strati sociali più deboli e porta, secondo la leggenda, alla nascita del tarallo pugliese.
Pare infatti che il primissimo tarallo della storia sia stato impastato da una mamma che non riesce a sfamare i propri figli. In dispensa ci sono solo farina, olio, sale e vino bianco: per provare a cavar fuori qualcosa di commestibile prova a creare un impasto con questi ingredienti, lo appiattisce, lo taglia a striscioline sottili e lo chiude ad anello che una volta lievitato viene cotto in forno. Il risultato sorprendente diventa una vera ricetta, la prima ricetta dei taralli pugliesi, nati come espediente per riempire la pancia dei bambini in un periodo di stenti. Sempre secondo questa leggenda, la signora diffonde la propria invenzione per aiutare i vicini in difficoltà e, in breve tempo, anche le altre case della Puglia feudale cominciano a trovare sollievo dai crampi della fame grazie a questa specialità. In pochi anni tutto il territorio pugliese è invaso dai tarallini e il prodotto diventa un vero e proprio alimento da forno, da vendere a prezzo bassissimo. Pian piano gli anellini cominciano ad essere consumati come snack e non come portata principale, diventando definitivamente uno snack di massa amato in tutto il Mezzogiorno.
I rapporti tra la Puglia e la Campania sono sempre più stretti col passare dei decenni, grazie agli scambi tra i piccoli commercianti e i marinai che da Taranto attraversano tutto il Regno delle Due Sicilie per andare a Napoli e Salerno. I taralli pugliesi sono ideale fonte di carboidrati per i lunghi viaggi quindi tra pastori e navigatori diventano un pasto insostituibile.
A Napoli i taralli mutano, diventano più speziati e grassi, si evolvono adattandosi alle esigenze di una città enorme e in continua espansione. Nel Ventre di Napoli di Matilde Serao vengono descritti i "fondaci", le zone popolari a ridosso del porto, piene zeppe di persone denutrite e disperate. I fornai partenopei, memori dei taralli pugliesi, iniziano a utilizzare lo "sfriddo", ovvero il ritaglio inutilizzato della pasta di pane appena preparata, per una nuova preparazione. Arricchiscono l'impasto con la ‘nzogna, ovvero la sugna, il grasso di maiale, e parecchio pepe; riducono la pasta a striscioline attorcigliate tra loro e formano una ciambellina da cuocere nel forno insieme al pane.
Perché la ricetta cambia a Napoli? In un certo senso il tarallo napoletano è più povero di quello pugliese perché lo strutto costa meno dell'olio. Questa differenza è presto spiegata: i taralli pugliesi nascono nei terreni feudali del Medioevo dove, nonostante la fame, tutti hanno dell'olio d'oliva. Nella Napoli dei Borbone, e in seguito anche con l'Unità d'Italia, l'olio in città è un bene di lusso e nessuno si sarebbe mai sognato di usarlo nella preparazione di uno snack di recupero. Pensate che anche le prime pizze fritte, fino agli anni del boom economico italiano, vengono fritte nello strutto non certo nell'olio come oggi.
Il connubio tra la pizza fritta e il tarallo non è casuale; una volta i taralli napoletani non aspettavano i clienti in vetrina, nei chioschetti di Mergellina come oggi: gli andavano incontro. Il "tarallaro" era solitamente un garzone con un cesto pieno di taralli fumanti da portare come uno zainetto che batteva senza posa la città per vendere i taralli ai passanti. Oggi la figura è scomparsa ma è stato un lavoro così iconico per un paio di secoli da aver lasciato in eredità un detto napoletano: "Me par ‘a sport d'o tarallaro" si dice a una persona in balia degli eventi, sballottolata a destra e a manca.
Tornando alla canonica storia del tarallo è bello constatare che qualche decennio dopo la nascita dello snack in Campania, c'è stato un ulteriore passo avanti nella ricetta: il tarallo ‘nzogna e pepe viene arricchito da un ingrediente tutt'ora presente, la mandorla. Non è chiaro chi abbia avuto questa brillante intuizione, ma la dolcezza della mandorla si sposa alla perfezione con la piccantezza del pepe creando uno dei matrimoni più belli dello street food italiano.
Come abbiamo visto oltre alla storia c'è una sostanziale differenza nella ricetta, sia per gli ingredienti usati sia per il metodo di cottura. Il tarallo napoletano vede l'impiego del grasso animale, ovvero lo strutto, in alternativa all'olio d'oliva pugliese. Non è solo un metodo di cottura, ma una cartina tornasole per la qualità del prodotto: la bontà del tarallo napoletano spesso e volentieri si giudica proprio in base alla quantità di strutto presente nell'impasto, che deve essere almeno del 40%, i migliori taralli sfiorano il 50% del peso totale. Non è uno snack adatto a chi vuole restare leggero insomma. La ricetta base dei tarallini pugliesi invece prevede solo 4 ingredienti: acqua, olio extravergine, farina e sale; la ricetta dei taralli napoletani ha il pepe e le mandorle in più.
La differenza più importante è forse sul metodo di cottura: i taralli napoletani, una volta preparati, vanno cotti direttamente in forno. La cottura dei taralli pugliesi è invece molto più lunga: si prepara la ciambellina e poi si lessa in acqua bollente, la si lascia riposare sotto il canovaccio per una notte e la mattina seguente si cuociono "a primo forno", quindi molto presto, perché la temperatura non deve essere troppo alta.
Oggi è molto difficile trovare dei tarallifici che seguono questa tradizione in Puglia ma la differenza si sente eccome. Per quanto riguarda i taralli industriali spesso la bollitura viene sostituita da una cottura a vapore: si perde in croccantezza ma su larga scala è sicuramente il metodo più veloce per ottenere una cottura simile all'artigianale.
Spesso sentiamo usare questa espressione ma c'è davvero un legame coi taralli che mangiamo? Decisamente sì. Parliamoci chiaro: i taralli, soprattutto quelli napoletani, sono stati un affare incredibile. Un prodotto molto grasso, calorico, carico di pepe; una volta perso l'alone di "cibo per sfamare i più poveri" è diventato un vero business. Più o meno funziona così agli inizi del ’900: l'oste napoletano offre i taralli iper speziati ai clienti cosa che fa venire una gran sete ai commensali; la conseguenza è che i clienti, in questo modo, comprano più fiaschetti di vino. Finito il primo giro si ricomincia, ancora e ancora. Un circolo vizioso che fa bene a tutti: i fornai vendono più taralli, gli osti vendono più vino, i clienti (solitamente poveri) mettono qualcosa sotto i denti per assorbire meglio l'alcol e sfamarsi un po' di più.
Il taralluccio e il vino diventano dunque un momento di convivialità, un cibo che le famiglie e gli amici condividono durante un pasto che accompagna momenti di ritrovo, informalità e spensieratezza. Spesso nelle fraschette laziali dei Castelli Romani ancora oggi i "tarallucci e vino" sono offerti a fine pasto: il tarallo dolce da inzuppare nel vino della casa. Una coccola che il padrone di casa offre ai propri ospiti.
Inizialmente dunque "finire a tarallucci e vino" aveva un significato amichevole, sereno, proprio come il clima generato dai taralli e dall'alcol in tavola. Oggi invece l'accezione è negativa, soprattutto in ambito giornalistico. L'espressione viene usata per indicare accordi politici presi sottobanco o dei compromessi che scontentano tutte le parti in causa. Un significato molto più oscuro rispetto a quello originale, molto più distante dal clima di accoglienza a cui fa riferimento la frase originale.
I taralli sono un prodotto tipico dei forni e hanno numerose varianti sia dolci sia salate nate in tempi lontani. A ogni latitudine del Bel Paese, il tarallo offre varianti interessanti, originali e ricche di storia. Assodato che le tipologie più famose sono quelle pugliesi e campane, vediamo tutti gli altri tipi di taralli a partire dal Nord. Al di fuori di Puglia e Campania quasi tutti i taralli italiani sono dolci, per questo motivo la "paternità" del tarallo tradizionale è contesa solo dalle due regioni sopracitate.
In Valle d'Aosta si fanno i taralli con farina di mais, zucchero, burro, uova, scorza di limone e farina bianca. Sono ovviamente delle ciambelline dolci, perfette per da pucciare nel vino o in un distillato a fine pasto. Nella regione più piccola d'Italia troviamo anche un'alternativa, le troillet, un tarallo che non contiene né burro, né farina: si ottiene solo con un'amalgama di zucchero, albumi e olio di noci e sono prodotti solamente a Villenueve, al confine con la Francia. Solitamente si mangiano abbinate al succo di mela verde
Da Ovest a Est andiamo in Friuli Venezia Giulia per un altro tarallino dolce: colàz di consei, ovvero le ciambelle del consiglio. Nati nel 1500 i colàz sono dei biscotti preparati in occasione della cresima: prima di essere mangiati vanno intrecciati con nastri colorati e indossati come se fossero una collana o una corona. La ricetta base prevede un impasto di zucchero, burro, lievito, scorza di limone, sale, latte e farina.
Anche in Emilia-Romagna c'è un tarallo dolce antichissimo, risalente al 1300. Si chiama buslanein e fino al 1931 non c'è stata alcuna ricetta scritta: ogni preparazione è stata tramandata per via orale fino al secolo scorso quando un fornaio piacentino, Peppino Lombardi, ha deciso di metterne a punto la ricetta. Un impasto di farina, burro, latte, zucchero, vaniglia e il gioco è fatto.
Lazio e Abruzzo condividono invece le "ciambelline", un tarallo dolce squisito preparato con farina, zucchero, olio d’oliva e vino. Le locande più tradizionali delle due regioni servono ancora i tarallucci da intingere nel vino dei castelli e, si dice che anticamente, nella zona di Frascati, le mamme li usassero per preparare la zuppa di latte ai neonati. La differenza tra le ciambelline laziali e quelle abruzzesi sta nel grano e del vino usato: in Abruzzo si usa la Solina, una farina particolare di grano tenero di montagna coltivata nell’area del Gran Sasso e dei Monti della Laga; il vino è invece il Montepulciano d'Abruzzo.
Preparazione simile ce l'hanno anche i taralli del Molise e della Basilicata. I ficculi sono i taralli dolci lucani, dal fortissimo sapore di anice selvatico. Sono preparati con farina 00, uova, zucchero, olio d’oliva, strutto, anice selvatico e liquore di anice. Quelli molisani hanno l'acquavite al posto dell'anice e subiscono una doppia cottura proprio come i taralli pugliesi.
Infine la Sicilia, con i taralli esteticamente più belli d'Italia: sono glassati e si cucinano in occasione della commemorazione dei defunti. Si preparano con farina, uova, zucchero, strutto e mandorle; a fine cottura si parte con una glassa bianca con lo zucchero e una nera con il cacao per dare vivacità al vassoio.