I primi si chiudono ad anello attorno al mignolo o all'indice, mentre i secondi prendono la forma di un cappello. Ma non è l'unica caratteristica che distingue queste due specialità emiliano-romagnole protagoniste della tradizione, in particolare quella natalizia.
Sono protagonisti di piatti iconici da servire in brodo durante le feste, ma possono essere anche conditi con un ottimo ragù: stiamo parlando di tortellini e cappelletti, “monumenti” della gastronomia dell’Emilia-Romagna, entrambi simbolo di tradizione famigliare e del territorio. Si tratta di due tra le più note preparazioni di pasta ripiena realizzate con la sfoglia all’uovo: spesso si confondono, così come succede con i cappellacci, specialità con cui condividono in primis la stessa regione, ma nonostante le similitudini a prevalere sono le differenze, decisamente note in patria, probabilmente meno fuori confine. Di seguito, facciamo una panoramica sulle caratteristiche principali dei tortellini e dei cappelletti, dalla storia alla chiusura, passando per la forma e il ripieno.
Anolini, agnolotti, ravioli, tortelli: quasi ogni regione italiana può vantare la sua pasta fresca ripiena. E vietato scambiare l’una per l’altra, perché si potrebbero accendere delle “sfide” mai sopite, come quella tra tortellini e cappelletti, due star emiliano-romagnole tanto celebri quanto diverse tra loro.
Iniziamo dal fattore geografico, che non è di poco conto. Per tradizione, i tortellini si fanno gravitare nel territorio dell'Emilia, in particolare tra Bologna (i turtlèn) e Modena (i turtlèin). Le due città sono coinvolte da secoli nella disputa su quale sia la “vera” patria del tortellino, una sfida che sembra aver trovato una risoluzione diplomatica alla fine dell’800, ubicando la sua nascita in quel di Castelfranco Emilia, che si colloca a metà strada da entrambe. I cappelletti, invece, sono generalmente localizzati in Romagna (caplèt): la genesi spazia in realtà tra Cesena, Reggio Emilia e Ferrara, con i caplit presenti nel ‘500 alla corte degli estensi. Possiamo, inoltre, uscire dai confini regionali, trovandoli per esempio nelle Marche e nel Lazio.
Per quanto riguarda i tortellini, a farci da guida sull’origine del nome è la Dotta Confraternita del Tortellino che, nel 1974, insieme all’Accademia Italiana della Cucina ne ha depositato la ricetta ufficiale presso la Camera di Commercio di Bologna. Il termine riporta alle “torte” o “tortule” medievali, paste ripiene circolari, oppure dal latino “torcere”, in riferimento allo storcimento in un canovaccio delle erbe che sarebbero servite per il ripieno. Parole come turtellorum, tortellos, torteleti e tortelletto fanno la loro apparizione in documenti già dal 1100, con una grandissima diffusione nei ricettari attorno al XIV e XV secolo. Dei cappelletti, invece, le prime tracce scritte riferite alla loro preparazione si attribuiscono ai cuochi Cristoforo di Messisbugo e Bartolomeo Scappi, al servizio degli Este, in pieno Rinascimento: diventati nel tempo un piatto popolare, vengono inseriti dal romagnolo doc Pellegrino Artusi tra le ricette della sua opera-manifesto La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, pubblicata nel 1891. Già nel 1811, inoltre, grazie a un documento accertato scritto dal prefetto di Forlì si scopre che i cappelletti in brodo di cappone facevano decisamente molta gola: “L'avidità di tale minestra è così generale, che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500”. Il loro nome? Indica probabilmente la somiglianza con il cappello usato comunemente nelle campagne, detto galonza.
Eccoci arrivati ai dettagli tecnici, quelli che fanno davvero la differenza. Partendo dagli stessi ingredienti, uova e farina, grazie alla ricetta codificata dei tortellini bolognesi sappiamo quali sono le caratteristiche peculiari della loro sfoglia: l’impasto si fa con 10 uova per un 1 kg di farina e l’imperativo è che sia tirato molto sottile e poi tagliato a quadretti di 3 cm per lato. Non vi è un’indicazione precisa sullo spessore: la narrazione popolare vuole che le sfogline, mettendo in controluce la sfoglia, possano vederci attraverso il Santuario della Madonna di San Luca – quindi si può ipotizzare un massimo di 2 millimetri. Per i cappelletti non c’è un disciplinare su cui fare affidamento, ma in genere sono più spessi e più grandi, con una dimensione di 5 cm per lato: nel reggiano e nel ferrarese tendono a essere più piccoli rispetto a quelli romagnoli.
Non conoscere il ripieno dei tortellini può costare il posto a MasterChef, lo sanno bene coloro che non hanno saputo rispondere a Bruno Barbieri al momento della domanda che, edizione dopo edizione, puntualmente salta fuori, mietendo vittime. Nei tortellini bolognesi ci devono essere lombo di maiale, prosciutto crudo, vera mortadella di Bologna, parmigiano, uova e noce moscata, con i modenesi che si concedono anche del vitello. Nella preparazione della ricetta depositata, il lombo è cotto come si fa a Modena, rosolato nel burro che dà sapore, ma la scelta è dettata anche da una maggiore sicurezza alimentare, dato che si tratta di carne di maiale. Nelle ricette di famiglia bolognesi, invece, sarà più facile trovare il ripieno crudo. Altra storia per i cappelletti, dove la farcitura, chiamata “compenso” è più variegata: se nelle zone emiliane si trovano versioni simili a quelle dei tortellini, con maiale, vitello e rigaglie di volatili, in Romagna a vincere sono ingredienti “di magro”, quindi senza carne e con soli formaggi freschi, come ricotta, squacquerone, raviggiolo (tipico dell’Appennino tosco-emiliano) arricchiti dalla sapidità del parmigiano e dal profumo della noce moscata. La ricetta di casa raccolta dall’Artusi era a base di “ricotta, oppure metà cacio raviggiolo, mezzo petto di cappone cotto nel burro, parmigiano reggiano, uova, noce moscata, poche spezie, scorza di limone – a chi piace – e un pizzico di sale”.
Last but not least, l’aspetto delle due specialità. Iniziamo dai tortellini: tra le diverse narrazioni sulla loro forma, quella più gettonata è che ricordano l’ombelico di Venere. Più sono minuti, più sono eleganti, con una chiusura che riesce a regola d’arte dopo anni di esperienza. Si dispone il ripieno al centro di un quadrato di sfoglia, si forma un triangolo e le punte estreme vengono poi chiuse ad anello attorno all’indice (a Modena) o al mignolo (a Bologna). I cappelletti romagnoli, invece, da questo punto di vista risultano meno elaborati, anche per via delle maggiori dimensioni: il quadrato si ripiega a metà per formare un triangolo e poi si uniscono le due fasce, così da ricavare un cappello dalla “testa” imbottita.