Arrivano entrambi dall'Emilia Romagna e sono due specialità che hanno forma, dimensione, ripieno e condimento diversi: i primi da gustare in brodo, emblema del Natale, i secondi farciti alla zucca in quel di Ferrara.
L’Italia offre un’ampia varietà di specialità a base di pasta fresca ripiena legate al territorio: tra ravioli, tortellini, agnolotti quasi ogni regione può vantare una sua preparazione classica. Celebre per questa tradizione, non serve dirlo, è l’Emilia Romagna, dove si incontrano (e spesso si scontrano) piatti iconici sotto il segno di sfoglie all’uovo tirate ad arte e farcite, dove compaiono anche cappelletti e cappellacci, simili nel nome, ma che hanno in realtà caratteristiche molto diverse tra loro, per cui è severamente vietato confonderli. In generale, potremmo dire che i primi sono tipici da servire in brodo a Natale, mentre i secondi ripieni di zucca rappresentano uno dei simboli della gastronomia ferrarese. Conosciamoli meglio, comprese le differenze principali, tra forma, dimensione, provenienza e valorizzazione in cucina.
Il nome deriva dalla forma immediatamente riconoscibile, ovvero quella di un cappello medievale che si ricava piegando a triangolo e poi unendo le estremità delle due fasce, creando così un “cupolone” bello imbottito: rispetto ai tortellini, con cui è facile confonderli, i caplèt sono più grandi (in genere il quadratino è di 5 cm, ma non c’è una misura ideale sancita da un disciplinare) e la sfoglia è più spessa. Se ne trovano già tracce nel Cinquecento, alla corte degli Estensi, diffusi sia in Emilia sia in Romagna con una predilezione per la seconda: non possono mancare nella Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene del romagnolo di Forlimpopoli Pellegrino Artusi, che raccoglie una ricetta di casa realizzata con ricotta (oppure metà cacio raviggiolo, un formaggio fresco tipico dell’Appennino Tosco-Emiliano), mezzo petto di cappone cotto nel burro, parmigiano reggiano, uova, noce moscata, poche spezie, scorza di limone – a chi piace – e un pizzico di sale.
La farcitura divide la regione in due: a Reggio Emilia sembra vincere la carne, tra manzo, prosciutto, vitello e anche rigaglie di pollo o di tacchino, proprio come a Ferrara, dove il batù (il ripieno dei caplit) si fa con la goletta di maiale, mentre in Romagna, come appena visto, si possono contare ben tre tipologie di formaggi. La carne viene completamente esclusa quando la ricetta è di “magro”, con l’apparizione di robiola e squacquerone.
Il cappelletto si cuoce nel brodo con cui si serve, di solo cappone o misto manzo, mentre una variante sul tema lo vuole asciutto al ragù. I più popolari sono i caplet (a)sot dsa'Michil (i cappelletti asciutti di San Michele), che si mangiano in occasione della festa del Santo a Bagnacavallo, nella Bassa Romagna: qui nel 2012 è stata depositata la ricetta dalla Pro Loco del paese che vede la pasta all’uovo farcita con parmigiano e condita con un ragù di macinato di suino, macinato di bovino adulto, pancetta arrotolata, passata di pomodoro e vino Bursôn, un vitigno autoctono a bacca rossa.
Quando si parla di cappellacci, invece, il pensiero corre subito ai Cappellacci di Zucca Ferraresi Igp, pasta ripiena che ha conquistato il certificato di Indicazione Geografica Protetta prodotta all’interno dei confini della provincia di Ferrara con un ripieno a base di zucca violina, dal colore giallo intenso quando matura. Hanno una dimensione ragguardevole, con il quadrato compreso tra i 6,5 e i 9,5 cm per lato: la farcia vede anche la presenza di formaggio grattugiato, pangrattato e un pizzico di noce moscata.
Anche in questo caso si fa riferimento a una specialità dalla tradizione secolare, dove le casate di Mantova e di Ferrara, i Gonzaga e gli Estensi, non solo creavano alleanze matrimoniali, ma anche fusioni gastronomiche: nella città lombarda, infatti, sono un piatto tipico i tortelli di zucca, mentre la prima menzione su stampa dei cappellacci si ha nel 1584 da parte di Giovanni Battista Rossetti, “regista” dei banchetti nobiliari del duca Alfonso II d’Este. Come i cappelletti, la forma è quella tondeggiante di un cappello, il caplaz, che deriva però dal copricapo di paglia a tesa larga che portavano i contadini nei campi.
Oltretutto, niente brodo, la cottura avviene in acqua bollente salata: a esaltare la dolcezza del ripieno ci pensano una colata di burro fuso, foglioline di salvia fresca e una spolverata di parmigiano reggiano. Non mancano farciture alternative, una delle più gettonate è con le patate o con il pesce (dal merluzzo ai crostacei), così come versioni diverse di condimenti, che vedono ragù, oppure sughi di funghi, con speck, pancetta o di mare.
Entrambe paste all’uovo della tradizione, hanno patrie d’elezione diverse, con i cappellacci più localizzati nel ferrarese, quindi emiliani, mentre i cappelletti si identificano maggiormente con la Romagna, pur raggiungendo l’Emilia, ma anche le Marche. Le dimensioni, il ripieno e la modalità di servizio sono le peculiarità che risaltano subito all’occhio, con i primi grandi e tondeggianti, dal piacevole contrasto dolce-salato dato dalla zucca, che si consumano asciutti, mentre i secondi di piccolo formato, arricchiti con formaggi e carne a seconda della zona e tuffati in corroborante brodo.