Dalla milanese alla calabrese, la trippa è un simbolo della cucina povera contadina. Si realizza con le frattaglie, ha varianti simili, ma diverse in tutta Italia, in quanto la sua origine è quella di ricetta di recupero.
Che si tratti di estimatori o di detrattori, la trippa è un piatto della tradizione povera contadina di cui è impossibile non parlare in maniera appassionata. Risveglia sentimenti ed emozioni primordiali, e come sostiene lo chef Diego Rossi, uno dei maggiori interpreti contemporanei di questa specialità, è sinonimo di “sostanza e di concretezza”. Cosa c’è, infatti, di più materico di un quinto quarto? La trippa fa parte di quelle che comunemente vengono chiamate frattaglie, le parti di scarto degli animali che da sempre creano un'analogia con l'idea di cucina rustica casereccia e da trattoria: basta pensare alla trippa milanese, alla trippa alla fiorentina per immaginare tovagliette a quadretti, vino rosso in bicchiere e atmosfere conviviali.
Ma che cos’è di preciso la trippa? Essenzialmente si tratta dell’insieme dello stomaco di bovini, suini e ovini, dove la più diffusa è quella di vitello e di manzo e comprende 4 parti differenti: il rumine, il reticolo, l’omaso (chiamati prestomaci) e l’abomaso, lo stomaco vero e proprio. Nelle ricette possono essere presenti tutte queste sezioni, oppure solo alcune, in quanto variano di consistenza e sapore.
La trippa ha bisogno di essere lavata e trattata per eliminare i residui delle interiora, un’operazione che generalmente viene svolta prima della messa in commercio: di solito, infatti, si acquista già pulita e precotta. Il colore ideale è grigio-avorio: se troppo bianca è possibile che la trippa abbia subito dei lavaggi in soluzioni di cloro per sbiancarla eccessivamente, restituendo un prodotto non di qualità. Se a casa ci si accorge di impurità o di un odore troppo pungente si può fare una veloce bollitura o un ammollo in acqua e aceto.
Da tenere a mente che la trippa è tenace: si tratta di un ingrediente bisognoso di cotture in umido (più o meno lunghe) per essere ammorbidito e anche ingentilito nel sapore. Vediamo quali sono le versioni più conosciute di questo piatto amato da Nord a Sud.
Se una volta i milanesi erano soprannominati busecconi il motivo è perché erano dei grandi amanti della trippa, chiamata busecca. Il piatto è di origine contadina, vede protagonista la trippa di vitello, in particolare l’abomaso (conosciuto in Lombardia come ricciolotta), pochissimo pomodoro in salsa o pelati (non è rossa), pancetta o lardo, burro e i fagioli di Spagna, lessati a parte, meglio se con un po’ di cotenna per insaporirli. Si fa cuocere nell’acqua oppure nel brodo vegetale per circa un'ora: alla fine, prima di servire, si può arricchire o meno con una spolverata di grana grattugiato.
La trippa alla parmigiana è una ricetta che arriva dall’Emilia Romagna e che vede l’utilizzo di una manciata di ingredienti. Il piatto è molto semplice nella preparazione e richiede due ore di cottura: prima si fa un soffritto di cipolla, poi si fa rosolare la trippa tagliata a listarelle, si aggiunge la abbondante passata di pomodoro, un po’ di sale e si fa andare nel brodo di pollo o vegetale, fino a quando le frattaglie non risulteranno tenere. Si condisce con abbondante parmigiano reggiano grattugiato.
La trippa alla fiorentina è anch’essa una ricetta contadina molto semplice, che vede come ingredienti base gli stessi della trippa alla parmigiana: pomodoro, olio extravergine d’oliva e trippa, preferendo un mix tra la sezione più magra dello stomaco (detto centopelle) e la croce, la più grassa e spessa. Non si mette il lampredotto, ovvero l’abomaso, che invece è la star del tipico panino. In origine si tagliava a pezzi grossi, ma ora è comune trovarla a listarelle e arricchita con vino bianco. Deve avere una consistenza cremosa, non liquida e quindi non è prevista l’aggiunta di brodo. Si cuoce per 40-50 minuti e poi si aggiunge un po’ di parmigiano reggiano a fine cottura, per “mantecare”, unendo un’ulteriore spolverata prima di portare in tavola.
La cucina romana e laziale è affezionata all’uso delle frattaglie. La sua versione della trippa è probabilmente quella più conosciuta, che si può definire tale solo se sono presenti due ingredienti simbolo del territorio: il pecorino romano, messo sia in cottura nel pomodoro per dare maggiore sapidità, sia al momento di servire, e la menta romana, da non confondere né con la menta né con la mentuccia: il suo nome scientifico è, infatti, mentha pulegium, con foglie allungate dall’aroma deciso, meno delicato di quello della nepitella. Le parti più usate sono i prestomaci di bovino, da far cuocere circa 1 ora e 20. Variazione sul tema è l’aggiunta del guanciale: c'è chi lo mette e chi no.
Ricetta di recupero come le altre viste in precedenza, anche la trippa alla calabrese è un piatto povero e succulento. Si chiama morzello (o morzeddhu) ed è tipico della città di Catanzaro: nella sua versione completa prevede anche l’utilizzo degli altri scarti del vitello, come trachea, cuore, polmoni, fegato e, ovviamente anche la trippa. In questo caso la trippa viene cotta per circa 2 ore a fuoco bassissimo in un sugo preparato con passata di pomodoro, aglio, peperoncino, origano e olio extravergine d’oliva, ottenendo un sapore dolce e delicato. Si accompagna perfettamente alla classica pitta, un pane locale schiacciato a forma di ciambella.