Niente più uova di pesce, la nuova tendenza dei caviali è quella di essere a base vegetale, come il tonburi, una specialità giapponese che sta diventando molto popolare, in quanto versatile e sostenibile. Conosciamolo meglio.
Alternativa sembra essere la parola d’ordine di questi ultimi anni ai fornelli, soprattutto quando si ha a che fare con alimenti di origine animale. Cercare un sostituto a carne e pesce (derivati compresi) mettendo al centro – e non più ripiegando – su prodotti vegetali più che un trend è diventata una vera e propria necessità a cui non è certamente immune la cucina stellata e gourmet, quella del fine dining, insomma. Le sperimentazioni sono all’ordine del giorno, con il vantaggio di avere la possibilità di andare alla scoperta e testare ingredienti “nuovi” o meno diffusi a livello globale. Ecco, quindi, il caso del tonburi, detto anche caviale di terra giapponese, che è entrato nel menu dello chef tristellato Daniel Humm, il primo ad aver esclusivamente proposte plant-based nel suo ristorante, l’Eleven Madison Park di New York. Il tonburi si presenta nella forma di tante sfere lucide e croccanti di colore verde scuro e viene usato come topping e condimento riproducendo l’effetto del carissimo caviale, che si ricava dalle uova di pesce, in particolare lo storione: è cruelty free, più economico (ma sempre lussuoso) e, per il momento, sostenibile.
Il tonburi è un caviale vegano che proviene dalla prefettura di Akita, in Giappone, in particolare dalla città di Odate. Si tratta dei semi della Bassia scoparia o Kochia scoparia, un arbusto annuale che appartiene alla famiglia delle Amaranthaceae, diffuso in diverse parti del mondo (Italia compresa), con presenza maggiore in Asia e Nord America: hanno una forma granulare, tonalità verdastre e misurano circa 1-2 mm di diametro. Una volta giunti a maturazione, i semi sono fatti seccare naturalmente o usando un essiccatore: a questo punto vengono bolliti e risciacquati più volte, per poi essere decorticati, lucidati e privati nuovamente dell’acqua. Il risultato finale? Tante piccole sfere croccanti pronte per essere confezionate.
La stagione del tonburi è l’autunno, perché è il periodo della raccolta, particolarmente favorevole in questa zona. I semi, infatti, sono leggerissimi e si staccano facilmente dai rami, disperdendosi: la posizione di Odate è ideale per ottenerne buone quantità, in quanto poco ventosa perché circondata dalle montagne. Un altro motivo per cui i giapponesi hanno imparato a trattare questo vegetale rendendolo commestibile – altrove è praticamente ignorato – è da ricercare nei principi della cucina buddista, la shojin ryori, vegetariana e vegana che esplode le potenzialità di verdure, erbe, germogli, alghe a seconda del territorio. Gli allevatori e i contadini di Odate se ne cibavano fin dal periodo Edo (1603-1868), ma in genere la pianta veniva utilizzata per realizzare scope: solo tra il 1973 e il 1975, con la crisi di questo tipo di commercio, la loro destinazione d’uso è cambiata, superando i confini regionali e nazionali.
Il tonburi ha l’aspetto di un elegante perlage, cosa che lo ha fatto soprannominare caviale di terra, caviale di montagna e anche caviale dei campi. A differenza del caviale di pesce (che sormonta tartine e blinis), le sue perle sono più croccanti, ma il sapore è meno intenso. Il gusto è erbaceo, con sentori di carciofo e broccoli, poco salino, come potrebbero essere, invece, i caviali estratti dalle alghe, tipo il kelp caviar, che esaltano l'umami tipico del Sol Levante. Se l’intenzione, quindi, è quella di riprodurre la sapidità del mare, il tonburi non è la soluzione adatta: Daniel Humm lo accompagna all’avocado, in contrasto con la sua “grassezza” e cremosità, mentre più tradizionalmente lo si vede in zuppe (tipo quella di udon) o insalate, con tofu, radici, tuberi, germogli, salsa di soia, per arricchire la texture e valorizzare le note terrose.
Nonostante sia preferenziale l’abbinamento con le verdure, si sposa alla perfezione con carne e pesce: in versione contemporanea, sta prendendo piede in sushi e sashimi come guarnizione, e nei rolls, a supporto della farcitura interna e come decorazione di tartare e carpacci. La sua popolarità è ancora circoscritta e molta della produzione è usata per rifornire locali e ristoranti, meno per l’uso domestico, in quanto resta un prodotto sicuramente meno caro del caviale, ma non alla portata di tutti. In Italia, non è facile da reperire: è presente solo in e-commerce stranieri e costa mediamente tra i 14 e i 20 euro per 170 grammi, di solito la quantità minima di una confezione.