Considerato una vera e propria prelibatezza, si tratta di un tesoro del territorio piemontese da preservare, trattare con cura e valorizzare pienamente in cucina: ci siamo fatti consigliare da un vero esperto come esaltarlo a tavola.
Definito l’oro delle Langhe, il Tartufo Bianco d’Alba è una delle varietà più pregiate di questo prezioso fungo ipogeo che ha nell’autunno e nella prima parte dell’inverno le sue stagioni d’elezione. Il Tuber magnatum pico – ecco il nome scientifico -, come da normativa regionale, lo si può trovare nei ristoranti e in vendita fino al 31 gennaio, poi bisognerà attendere la fine di settembre o l’inizio di ottobre del 2025, quando il trifolao si metterà di nuovo alla sua ricerca insieme all’inseparabile cane, che grazie all’intuito e a un fiuto impareggiabile sviluppato con anni di esperienza riesce a scovare le “pepite” che si sviluppano interamente sotto terra. Considerato una vera e propria prelibatezza – i costi ragguardevoli si aggirano attorno ai 300 euro l’etto -, portare in tavola il tartufo significa dare un tocco in più alla ricetta, scegliendo con cura i migliori abbinamenti con i cibi e i vini che possono esaltare le sue qualità. Per non sbagliare, ci siamo affidati ai consigli di Stefano Mosca, Direttore generale dell’Ente Fiera Tartufo d'Alba.
Il Tartufo Bianco d’Alba non si può coltivare, è un fungo spontaneo del Piemonte che cresce in simbiosi con le radici di alberi e arbusti del bosco e il suo equilibrio è particolarmente delicato: nel 2024, per esempio, a causa dei cambiamenti climatici, l’inizio della raccolta è stato posticipato dal tradizionale 21 settembre al 1° ottobre. Come si presenta? Ha dimensioni variabili e una forma globosa che può essere appiattita e irregolare: il peridio (ovvero la membrana esterna protettiva) è di colore giallo pallido e ocra, e la gleba (la parte interna delle spore) dalle nuance lattiginose, rosacee o marroncine è attraversata da fitte venature bianche. Il suo profumo è composto da 120 molecole volatili, con note che richiamano l’aglio, i funghi e il miele. Si consuma fresco, non si cuoce e si lamella a crudo direttamente sul piatto al momento del servizio: “è in quell’attimo” spiega Mosca “che si ha la sensazione più forte del suo aroma”. Prima di utilizzarlo si pulisce sotto il getto d’acqua con una spazzolina, si asciuga e si fa riposare per 10 minuti. Una volta acquistato, conservarlo correttamente è obbligatorio per non rovinarlo: il tartufo dura una settimana riposto in frigorifero, avvolto da carta assorbente all’interno di un vasetto di vetro con coperchio.
“Quella che ti dà il tartufo è una sensazione principalmente olfattiva”, ci dice il Direttore, rivelando che più che cibi giusti e sbagliati, ci sono invece due caratteristiche tecniche che favoriscono le proprietà organolettiche del fungo ipogeo: il calore e la grassezza. Quando il tartufo viene lamellato nel piatto, il primo fa salire e sprigionare al meglio l’aroma, allo stesso modo lo esalta la seconda, valorizzando anche il sapore. Via libera quindi a “uovo in tegame con un buon burro, pasta all'uovo, come tajarin o tagliatelle a seconda della regione sempre con il burro, oppure il risotto con i formaggi, o semplicemente burro e parmigiano”. Poi, ci sono anche linee di pensiero differenti: “Se andiamo a vedere nei libri di cucina del ‘700 e dell‘800, si parlava di un utilizzo molto diverso: il tartufo nei piatti freddi. Un grande classico è la tartare o la battuta di carne cruda: in questo caso prevale la sensazione gustativa e non quella olfattiva, perché l’aroma non sale senza calore”. Quale carne scegliere? “Non lo dico perché sono piemontese, ma la scelta della carne è fondamentale: qui la migliore in assoluto è la fassona, perché è delicata e ha un fattore dolcezza che la fa abbinare bene al sentore agliaceo e di fungo spiccato che ha il tartufo bianco, rispetto ad altre carni che tendono all’erbaceo e a essere più forti, che lo andrebbero a coprire”. Un’accoppiata originale? “Per unire gli opposti, consiglierei il tartufo bianco, basta una lamella, su un buon gelato alla crema all’uovo”.
Se nell’immaginario collettivo il Tartufo Bianco d'Alba fa subito pensare a un vino rosso, come il Barolo e il Barbaresco, perché legati allo stesso territorio, da questo punto di vista Stefano Mosca apre gli orizzonti: “Personalmente suggerisco di provarlo con dei vini bianchi strutturati, come per esempio uno Chardonnay che magari abbia fatto anche un po’ di affinamento in legno: lo trovo molto interessante. Oppure con gli italiani del Centro, come un Greco di Tufo o un Fiano d’Avellino invecchiato di qualche anno. Ma anche dei piemontesi importanti, come un Gavi o un Erbaluce di Caluso si sposano bene”. Ovviamente, i vini non devono combaciare solo con il tartufo, ma andare in tandem con il piatto a cui è stato associato: l’uovo al tegamino citato precedentemente può affiancarsi al bianco o a un rosso fresco, tipo la Barbera, così la tartare di fassona, che apprezza pure un Nebbiolo affinato solo in acciaio, anch’esso con più freschezza rispetto a un rosso che ha riposato in botte.