Condito e coperto da un mantello di pangrattato: ecco come nasce il sartù, il piatto inventato per ingannare i nobili che non volevano mangiare il riso: ecco la sua storia.
Protagonista di pranzi domenicali, allieta le tavole napoletane da moltissimi anni: parliamo del sartù di riso, uno dei capisaldi della cucina partenopea, piatto che deve le sue origini a un inganno, cioè a uno stratagemma inventato a corte per far mangiare il riso a nobili che lo ritenevano poco raffinato. Un po’ come si fa con i bambini quando non hanno voglia di mangiare le verdure, che per questo vengono nascoste nella pizza o negli involtini di carne. Vi raccontiamo la storia del sartù di riso, il piatto dell’inganno.
Ma perché questo alimento, che oggi sappiamo essere molto nutriente e che si presta ai più svariati usi, dal risotto ai supplì, era così poco apprezzato in passato? Il dilemma è presto spiegato. Oggi come allora il riso, in particolare quello in bianco, viene associato a diete ipocaloriche e poco grasse, adatte a chi deve stare attento e, nel caso specifico, riprendersi dopo un periodo di influenza intestinale. Intorno al 1700, periodo in cui erano diffuse molte epidemie, scoperte le sue proprietà astringenti, il riso veniva spesso prescritto proprio per questo utilizzo, tanto che erano in molti ad averlo soprannominato sciacquapanza. In più i nobili napoletani, devoti e fedeli del maccherone di grano duro, protagonista di pranzi e banchetti di corte, consideravano il riso un alimento non solo privo di gusto ma anche poco “presentabile” a corte.
Ma con l’arrivo delle dinastie Angiò e Aragona, anche il commercio iniziò a modificarsi e a Napoli iniziano ad arrivare molti più carichi di riso. Cosa fare con questo prodotto che nessuno voleva? È il periodo in cui Re Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie, detto anche il re Lazzarone, sposa Maria Carolina d’Austria la quale, per motivi a noi inspiegabili, non ama affatto la cucina napoletana. La sovrana scrive pertanto a sua sorella Maria Antonietta di Francia di salvarla da quei piatti così “poco nobili”, chiedendo di inviarle i più raffinati cuochi francesi. Arrivano così a Napoli i monsieur o, come li chiameranno i napoletani, i monsù, che pensano bene di fondere le due cucine. Ed è così che nasce il sartù, un sontuoso timballo di riso napoletano.
Nel tentativo di rendere più appetibile un piatto che fino a quel momento veniva etichettato come alimento per chi sta male, i monsù iniziarono a condirlo con ogni ben di dio a disposizione: dalla carne ai piselli, dal formaggio alle uova sode, mescolando tutto con generose quantità di pummarola, sovrastata poi da cascate di parmigiano grattugiato e pangrattato che avevano il compito di nascondere l’interno, avvolgendolo come con un soprabito. Questo mantello doveva "stare sopra a tutto", che in francese si dice sour tout, termine da cui poi si arriva a sartù.
All’origine del nome, e del piatto, c’è dunque un camuffamento, o se vogliamo un inganno ma, in difesa di chi lo ha inventato, possiamo assicurare che era un inganno fatto a fin di bene, in particolare nei riguardi del palato: una volta scoperto, l'imbroglio veniva infatti perdonato grazie alla bontà del boccone che si stava assaggiando.
Superato l’inganno, il sartù è per fortuna sopravvissuto sconfinando dalle tavole di corte per arrivare a quelle di tutti quanti, fino ai giorni nostri. Il piatto, che si presta a numerose rivisitazioni, si può considerare una ricetta aperta, nel senso che lo si può preparare come meglio si crede e metterci dentro tutto quello che si ha a portata di mano: dal semplice sugo al ragù di carne, dai formaggi alle uova sode, dai funghi alle salsicce. Il tutto sempre coperto dal mantello di pangrattato che, oltre a nascondere come anticamente si faceva, consente la formazione di una deliziosa crosticina.
E quindi alla fine è proprio grazie ai capricci di nobili altezzosi e poco riconoscenti della cucina napoletana, che dobbiamo l'invenzione di uno dei piatti più buoni che si possano gustare nei giorni di festa.