No, non stanno chiudendo tutti gli stellati e anzi, la percentuale di chiusura è molto bassa rispetto al resto della ristorazione italiana. L'impressione è data dall'approccio mediatico che abbiamo nei confronti di questi luoghi ed è rafforzata da una crisi oggettiva che è sia economica sia intellettuale.
La crisi del fine dining, le chiusure degli stellati, la fine dell'era dell'alta cucina e l'emergenza dell'eccellenza italiana della ristorazione. Questi sono temi ricorrenti sulle pagine dei giornali più prestigiosi e nei battibecchi social tra appassionati e non. Chiudono insegne rinomate, gli chef si lamentano dei costi, i clienti sembrano preferire esperienze più informali. Ma è davvero un tramonto inesorabile, come profetizza qualcuno, o stiamo assistendo a una trasformazione profonda del fine dining? La risposta, come spesso accade, non è né un sì né un no secco. È piuttosto una questione complessa, che va letta tenendo conto di vari fattori economici, culturali e imprenditoriali. Cerchiamo di fare luce sulla faccenda.
Partiamo dai dati perché i numeri non mentono mai. È vero che ci sono chiusure, ma è un fenomeno che riguarda l'intero settore della ristorazione, non solo gli stellati. Secondo la Federazione Italiana Pubblici Servizi lo scorso anno, su 133.761 ristoranti, 10.198 hanno cessato l'attività (il 7,6% del totale). Nello stesso periodo, però, i consumi delle famiglie in ristorazione sono cresciuti. Questo significa che non c'è un crollo dei consumi ma una selezione naturale dei locali che è sì una cosa triste, una tragedia per tante famiglie, ma è anche inevitabile. La maggior parte dei ristoranti chiude per le stesse ragioni per cui falliscono altre imprese: scelte imprenditoriali sbagliate, business plan improvvisati, modelli di business non sostenibili.
E gli stellati? Se chiude un ristorante con la stella Michelin fa più rumore ma rappresenta una percentuale minima del totale. In Italia ci sono 385 ristoranti stellati. Quindi, anche se chiudessero alcuni nomi importanti, si tratterebbe di una frazione piccolissima del settore. Nel 2024 hanno chiuso 18 ristoranti stellati per una percentuale, solo su questo segmento, del 4,85% dei locali, quindi una cifra di molto inferiore rispetto ai ristoranti "non-stellati".
La chiusura dei ristoranti stellati rispetto al totale degli esercizi rappresenta meno dello 0,01% quindi non sono le chiusure in sé ad essere allarmanti ma il clamore che suscitano a causa dei riflettori puntati addosso. Hanno investito anni nella costruzione di un’identità forte, nella comunicazione, nella ricerca culinaria. Quando uno di questi chiude la notizia fa subito il giro dei giornali, anche se magari dietro c’è una scelta strategica (come nel caso di alcuni chef che preferiscono dedicarsi ad altri progetti o cambiare approccio).
Il punto interessante in questa storia sono le percezioni pubbliche che si formano molto più rapidamente di quanto non facciano i dati, spesso amplificate da titoli allarmistici ("Chiude lo stellato X: è crisi nera per la ristorazione italiana?"), storytelling drammatici dati dagli stessi chef che parlano del personale o dei sacrifici da fare; influencer e food blogger vari che alimentano con la loro confusione una comunicazione errata della faccenda. Questo rende la chiusura di uno stellato un simbolo di qualcosa di più grande, quasi apocalittico.
La crisi viene amplificata poi da un fattore che sottovalutiamo: il periodo della pandemia. Tra il 2020 e il 2022 molti ristoranti hanno resistito oltre le aspettative grazie a sostegni governativi, delivery e iniziative private. Quando questi aiuti sono cessati, alcune attività hanno chiuso, non per un’improvvisa crisi, ma perché era semplicemente arrivato il momento.
I dati reali ci raccontano una dinamica più stabile e fisiologica di quanto il racconto collettivo faccia pensare. D'altra parte l'Italia è il terzo Paese con più stellati al mondo, dopo Francia e Giappone, il che sembra scontato vista la nostra tradizione gastronomica, ma se pensiamo alla differenza di popolazione e alle dimensioni della nostra nazione ci rendiamo conto di quanto forte sia il comportato. Il sistema gastronomico è quindi molto esposto e, inevitabilmente, anche più soggetto a turnover.
Nel dibattito pubblico attorno alla ristorazione d’eccellenza, la chiusura di un ristorante stellato spesso genera un’eco sproporzionata rispetto alla sua reale portata economica o strutturale. Questo accade per via di quella che possiamo definire "distorsione della lente mediatica", un fenomeno per cui eventi isolati, se inseriti all’interno di un contesto simbolico e altamente visibile, diventano occasioni per generalizzazioni, interpretazioni drammatiche e narrazioni di crisi. Questo accade anche in altri ambiti, molto più seri e delicati, dell'esistenza umana: la chiusura di uno stellato a prescindere dal motivo diventa un sintomo di un corpo al collasso, quasi fosse un cedimento strutturale del modello culturale dell’eccellenza gastronomica.
Il fenomeno è ovviamente dato dalla visibilità che gli stellati hanno e al ruolo di avamposti culturali di cui si sono appropriati. Soprattutto negli ultimi anni gli chef che fanno fine dining sono passati dall'alto artigianato a figure pubbliche, vere e proprie icone del made in Italy, portatori di un'identità collettiva fondata su creatività, memoria territoriale e innovazione. Agli chef chiediamo di tutto: dal commento sul calcio ai pensieri sui dazi imposti dai mercati internazionali. Per questo quando a chiudere è uno stellato la reazione è simile alla chiusura di una biblioteca o teatro e contemporaneamente è anche opposta, quasi a nascondere una gioia latente: quello ha prezzi alti, è normale che chiuda.
Questa dinamica influenza profondamente anche il modo in cui il pubblico recepisce le notizie. Il consumatore, che spesso ha un rapporto solo online e idealizzato con l'alta cucina, interiorizza l’idea che la chiusura di un ristorante stellato equivalga a una perdita per tutti, anche se non ci è mai stato. La comunicazione, così strutturata, rafforza una percezione elitaria della gastronomia: si parla quasi esclusivamente dell’eccellenza, trascurando del tutto il vastissimo universo intermedio fatto di trattorie, osterie, bistrot e cucine di quartiere che ogni giorno lavorano con passione, ma restano fuori dal radar dei media. Paradossalmente, la crisi vera, quella che colpisce la ristorazione "normale" passa sotto silenzio, e il pubblico perde il senso delle proporzioni. Purtroppo chiudono anche i ristoranti informali, anzi stando ai numeri chiudono in numero assoluto e in proporzione maggiore rispetto ai locali di alta cucina. Questo però non fa rumore perché se chiude uno stellato un po' se l'è cercata, perché è di lusso, ha i prezzi alti, è come vedere un nobile essere catturato nel luglio del 1789 a Parigi: è giusto così, deve pagare così la prossima volta impara a mettere nel piatto 3 ravioli facendomeli pagare 25 euro.
Probabilmente questa lente mediatica non incide solo sul pubblico ma influenza anche gli stessi chef, che si trovano a vivere in un cortocircuito costante tra visione pubblica e realtà quotidiana. Da una parte, il successo mediatico li colloca in un ideale quasi mitico, in cui tutto è arte, sperimentazione e bellezza. Dall’altra, la gestione reale di un ristorante, con le sue complessità economiche, le pressioni lavorative, il carico umano e organizzativo, spesso li costringe a confrontarsi con un modello non più sostenibile. La scelta di chiudere, per molti, nasce da un bisogno di ritrovare senso, equilibrio e qualità della vita, ma nel momento in cui questa scelta entra nella narrazione pubblica, viene spesso travisata: interpretata come fallimento, rinuncia, o addirittura come sintomo di una crisi irreversibile del sistema stellato.
Questa dissonanza crea ulteriore pressione sugli attori del settore che devono non solo gestire il proprio progetto imprenditoriale, ma anche conformarsi a un’immagine pubblica sempre più ingombrante. Il rischio è che la narrazione collettiva soffochi la possibilità di raccontare la complessità e la varietà di un settore che, invece, avrebbe bisogno di spazi più equilibrati, capaci di accogliere non solo i trionfi, ma anche le transizioni, le pause, le trasformazioni. In questo senso, restituire al pubblico un’immagine meno idealizzata e più concreta della ristorazione d’eccellenza – e della ristorazione in generale – sarebbe un passo fondamentale per superare la distorsione della lente mediatica e tornare a una narrazione più autentica, più plurale e più onesta.
Arrivati a questo punto ti sarai convinto che allora va tutto bene, che non ci sono problemi. Non è così: i problemi ci sono eccome anche perché non sempre basta il talento di un cuoco per far andare bene il ristorante. È un’idea romantica, forse comoda per alimentare la narrativa mediatica dell’artista solitario, ma lontana dalla realtà imprenditoriale. Aprire e mantenere un ristorante oggi richiede molte competenze. Serve un’infrastruttura solida, servono competenze manageriali, strategie di medio-lungo periodo, una visione imprenditoriale in grado di affrontare mercati volatili e costi crescenti. Per far funzionare un ristorante non serve un bravo chef, serve un bravo imprenditore e quando queste due figure coincidono le cose vanno bene ma quando non coincidono le fragilità emergono rapidamente, anche nei contesti apparentemente più floridi. In questo caso parliamo di ristorazione in generale: anche se vuoi fare la tavola calda, la pizzeria e via dicendo devi avere certe competenze per sopravvivere in piazza.
Questa difficoltà strutturale si intreccia con un modello economico che, nella maggior parte dei casi, si rivela semplicemente insostenibile: il fine dining, infatti, è un settore che richiede investimenti altissimi e ritorni spesso limitati. Il personale deve essere numeroso, formato e ben retribuito; le materie prime sono di qualità eccezionale, quindi costose; la tecnologia di cucina è sempre più avanzata; la comunicazione è imprescindibile, ma onerosa. Tutto questo per servire spesso non più di trenta o quaranta coperti a sera. Il paradosso è evidente: si lavora con una cura artigianale, ma all’interno di un modello economico che fatica a reggersi da solo.
I numeri parlano chiaro: nel 2022, l’intero comparto dei ristoranti stellati italiani ha generato un fatturato complessivo di 327 milioni di euro, una cifra importante, certo, ma che se riferita all’intero settore appare modesta. Se si trattasse di un’unica impresa, si collocherebbe solo al 556° posto tra le aziende italiane. E questo dato acquista ancora più peso se si considera lo sforzo richiesto per mantenere certi standard e la pressione continua a cui sono sottoposti chef e brigate. La stella Michelin può far crescere il fatturato anche in modo significativo ma quasi mai al punto da compensare l’investimento strutturale necessario. Il risultato è che molti ristoranti d’eccellenza finiscono per trasformarsi in showroom: vetrine di altissima qualità, spesso in perdita, che servono più a generare opportunità collaterali come consulenze, progetti editoriali, programmi televisivi, collaborazioni con brand che a produrre utili direttamente.
Poi ci sei tu, il cliente e anche tu sei cambiato. Oggi cerchi esperienze più libere, più inclusive, meno rigide. Il menu degustazione imposto, il rituale della spiegazione tecnica a ogni piatto: tutto questo ti può sembrare affascinante, ma a lungo andare anche un po’ stancante. E non sei il solo a pensarla così. C’è stato un tempo in cui l’alta cucina si presentava come un dogma intoccabile. Il cliente entrava in silenzio, si affidava completamente alla sala e faceva tutto ciò che abbiamo descritto, come in una sorta di liturgia gastronomica, elegante ma anche rigida, spesso più tesa a impressionare che a mettere a proprio agio. Oggi però quel tempo sembra allontanarsi, e non è solo il mondo della ristorazione a essere cambiato: è cambiato chi si siede al tavolo.
Il cliente contemporaneo è colto, curioso, con una sensibilità sempre più diffusa per i temi della sostenibilità, del benessere e dell’esperienza autentica, chiede qualcosa di diverso. Vuole sentirsi accolto, non giudicato. Vuole scoprire, non subire. Vuole scegliere, più che farsi guidare in un percorso a senso unico. Certo, resta affascinato dalla maestria tecnica e dall’estetica di certi piatti, ma non accetta più che il piacere sia secondario rispetto alla performance. La cena, per molti, deve tornare a essere un momento di piacere spontaneo, non un’esibizione da interpretare.
Oggi una nuova generazione di cuochi sta ripensando i codici dell’alta cucina. Lo fa cercando una maggiore armonia tra ambizione e realtà, tra eccellenza e accessibilità. Non si tratta di abbassare l’asticella, ma di cambiarne il posizionamento: puntare meno sulla spettacolarizzazione e più sulla relazione. Più che stupire, emozionare e nutrire. Nascono così ristoranti che non rinunciano alla ricerca, ma scelgono forme più soft, luoghi dove il fine dining si avvicina al bistrot o si intreccia con progetti agricoli, culturali, artigianali. In cui la cucina dialoga con il territorio, la sala con il cliente, e il lavoro – finalmente – con la vita.
Molti chef, di fronte alla pressione delle guide, delle classifiche e dei costi crescenti, scelgono di rinunciare alla Stella, non come rifiuto dell’eccellenza ma come difesa della propria idea di felicità. Possiamo essere d'accordo oppure no, possiamo discutere se si può fare oppure non si può fare (spoiler, non si può "rinunciare" alla Stella) ma è un dato di fatto. Quasi sempre è una furbata per anticipare la perdita del macaron per mano della Guida Rossa ma non siamo qui per giudicare. Altri invece trasformano il proprio ristorante in un laboratorio aperto, un hub dove accadono cose che vanno oltre il servizio: incontri, botteghe, scambi. Altri ancora ripensano l’esperienza gastronomica a partire dal gesto dell’accoglienza, rendendo il lusso una questione di tempo e cura, più che di formalità e distanza.
In questa fase di transizione, è evidente che non si tratta di dichiarare la fine dell’alta cucina, ma di prenderne atto: l’alta cucina, come ogni linguaggio vivo, si sta trasformando. Lo fa in risposta a un pubblico più consapevole, ma anche per sopravvivere a un contesto economico sempre più complesso. Lo fa con fatica, ma anche con coraggio e se saprà liberarsi dai vincoli che l’hanno resa inaccessibile, potrà tornare a essere ciò che da sempre è nel suo cuore: un atto di cultura, di piacere e di relazione profonda con il mondo.