La sfogliatella nasce nel Medioevo, molto lontano da Napoli. Si tratta di un dolce senza padre, portato in auge dal cuoco di Papa Pio V nel 1500. Una storia affascinante e misteriosa, che passa per monastero di Santa Rosa a Conca dei Marini, in Costiera Amalfitana.
La sfogliatella è uno dei simboli di Napoli e non c'è un bar, una pasticceria, un semplice laboratorio che non le venda. Le versioni, la riccia e la frolla, hanno entrambe caratteristiche peculiari, entrambe squisite. Sono una vera e propria allegoria dell'animo umano, soprattutto nella versione riccia. Pensateci un po', osservatela: c'è una parte esterna, arzigogolata, piena di sfaccettature di colore, che avvolge un morbido ma consistente ripieno; lo zucchero a velo che la ricopre è una sorta di trailer della dolcezza interna, un assaggio che anticipa il delizioso sapore cremoso della ricotta e dei canditi.
Parliamo della versione riccia perché la frolla è una variazione relativamente moderna, ma come nasce la sfogliatella napoletana? La storia della sfogliatella comincia tra Furore e Conca dei Marini, in Costiera Amalfitana, nel 1600. Più precisamente ci troviamo nel convento di Santa Rosa, abitato da monache di clausura che si tengono impegnate con la pasticceria, con l'agricoltura e la panificazione. Donne ligie al voto fatto in gioventù che si concedono un unico, grande, peccato capitale, il più dolce e innocente di tutti: la gola.
Nella mente dei campani il convento di Santa Rosa evoca immediatamente un altro dolce, la Santarosa appunto, e vi sorprenderebbe sapere quanto i due prodotti siano strettamente collegati. La versione più famosa sulla nascita della sfogliatella ci porta in mezzo alle suore dunque, in un convento che oggi è uno splendido albergo.
Pare infatti che un giorno la madre superiora, tale suor Clotilde, si sia accorta di alcuni avanzi di semola bagnata nel latte. Buttarli sarebbe stato un peccato e quindi si ingegna: crea un miscuglio con frutta secca, limoncello e ricotta, lo inforna e lo trasforma in un ripieno di un impasto a base di vino e strutto. Due sfoglie chiuse che ricordano la forma del cappuccio di un monaco a proteggerlo: nasce così la Santarosa. Ancora oggi questo pasticcino viene fatto con una ricetta molto simile ed è tra le più buone prelibatezze della cucina campana.
Per ben 200 anni questa ricetta resta confinata in quell'oasi che tutto il mondo ci invidia che è la Costiera, fino a quando, nel 1818, Pasquale Pintauro porta il prodotto a Napoli.
Come sia arrivata la ricetta della Santarosa nelle mani di Pintauro, che all'epoca era solo un modesto oste su via Toledo, è una circostanza tutta da scoprire. Dobbiamo chiarire che qui si parla di un dolce leggendario e, come ogni leggenda che si rispetti, ha una genesi tutt'altro che certa. La storia della Santarosa ha sicuramente un fondo di verità, ma la situazione è molto più ingarbugliata di così.
Di fatto, la prima antenata della sfogliatella, risale almeno al 1570. La certezza della data è dovuta alla pubblicazione di una serie di volumi, ovvero "La opera di Bartolomeo Scappi, mastro dell’arte del cucinare, divisa in sei libri". Questo manuale è stato redatto al tramonto della vita di Bartolomeo Scappi, il cuoco letterato, chef privato dei pontefici Paolo III e Pio V. Nei volumi sono citate alcune delle più importanti ricette dell'epoca, tra queste c'è una "sfogliatella ripiena di biancomangiare". Nome e ricetta inconfondibile, si tratta senza ombra di dubbio del dolce reso celebre da Pintauro.
Scappi era lombardo, quindi stiamo dicendo che uno dei dolci più iconici della tradizione napoletana sia stato inventato da un cuoco brianzolo? No, perché non è stato lui a inventare quella sfogliatella, è stato però il primo a menzionarla.
Il biancomangiare è il piatto più importante del Medioevo, è una rivisitazione di una ricetta Romana a base di riso (farina o chicchi stracotti), latte, zucchero, mandorle, lardo, pollo o pesce. Intorno all'anno 1000 c'è l'aggiunta di zucchero che trasforma la pietanza in un dolce. Ancora oggi ci sono tantissime versioni di questo piatto in giro per l'Italia.
Il sapore del biancomangiare medievale non è così entusiasmante e racchiuderlo in una sfoglia croccante è il modo migliore che Bartolomeo Scappi (o chi per esso) ha trovato per presentarlo alle cene papali. La testimonianza del cuoco lombardo è fondamentale: la sua opera è datata 1570, il monastero di Santa Rosa a Conca dei Marini è stato costruito solo nel 1681. Com'è arrivato in Costiera questo dolce? Di cena in cena, di visita in visita, per oltre un secolo la sfogliatella ripiena di biancomangiare ha girovagato per l'Italia fino a quando non si è accasata in Campania.
Non sappiamo bene come, ma la sfogliatella da nomade decide di diventare stanziale e, visto il panorama che si vede da Conca dei Marini, capiamo perfettamente il perché della "decisione".
Nel convento giunge grazie ai "rapporti" che questo dolce ha con la cristianità, ma come arriva a Pasquale Pintauro? Qui il mistero si infittisce perché ci sono tantissime leggende popolari che riguardano l'appropriazione della ricetta da parte dell'oste partenopeo.
Ufficialmente nessuno sa come il ristoratore sia riuscito a strappar via una ricetta secolare da un monastero di devotissime monache di clausura, eretto su un inaccessibile cucuzzolo di montagna: c'è chi dice che Pintauro abbia costretto una sua figlia a prendere i voti con il solo scopo di rubare la ricetta, ma non ci sono cronache che confermino questa eventuale crudeltà. Secondo un'altra leggenda, il "maestro delle sfogliatelle", avrebbe ereditato la ricetta da una sua zia monaca. Anche in questo caso però, di prove non se ne hanno.
La versione più probabile è che Pintauro abbia assaggiato e si sia innamorato della sfogliatella in provincia di Salerno e che, tentativo dopo tentativo, sia riuscito a creare una propria versione da vendere a Napoli.
Fino a questo momento abbiamo parlato della sfogliatella per eccellenza, quella riccia, ma una delle faide più comuni nelle case dei napoletani è l'annosa sfida con la sfogliatella frolla.
Questa variante nasce una quarantina d'anni dopo l'approdo in città della riccia di Pintauro. Le sfogliatelle diventano una prelibatezza ambitissima nel capoluogo e sono tanti i pasticcieri che provano a replicare il prodotto, con ottimi risultati a dire il vero. C'è un problema con questo dolce però: la sfogliatella riccia è croccante e le sfoglie sono così sottili da risultare quasi taglienti se non si ha una buona dentatura. L'igiene orale è l'ultimo dei problemi nella Napoli di fine Ottocento e sono in molti quelli che devono rinunciare a questo piacere della vita.
Qui entra in gioco Pietro Carraturo, fondatore della pasticceria che oggi si trova a Porta Capuana celebre per i suoi struffoli. Carraturo cerca di trovare una soluzione e di non perdere quella grande fetta di clientela, che per Pietro è ancora più grande rispetto a quella dei concorrenti. L'indirizzo a quel tempo è il punto di riferimento per le "cafoniere", così venivano chiamate le persone di provincia che arrivano in città con le corriere per acquistare abiti, ferramenta e altre "magnificenze". La provincia di Napoli è stata fino alla metà del secolo scorso a trazione fortemente agricola e gli agricoltori presentano una situazione dentistica assai peggiore rispetto ai napoletani del centro. Pietro Carraturo crea così una nuova ricetta con la pasta frolla, che può essere "ammorbidita" dalla saliva e gustata anche da chi ha più di qualche dente in meno.
L'immagine descritta è tutt'altro piacevole ma fotografa bene la situazione tragica in cui versa il Mezzogiorno di inizio Novecento. La nascita della sfogliatella frolla è stata solo una mossa di marketing estremamente intelligente. Questo dolce è stato apprezzato al punto da scomodare l'antenata riccia, tant'è che oggi c'è una vera e propria "battaglia" per il trono di "dolce più amato di Napoli".
Le sfogliatelle, ricce o frolle che siano, sono l'ennesimo esempio (come successo con la cassata siciliana) di come la gastronomia italiana abbia radici antichissime e sia una continua evoluzione e rivisitazione di ciò che è stato in passato.