Sembrano un incrocio tra un maiale e una pecora, dato lo spesso strato di lana che li ricopre. Forse discendono dal cinghiale, ma hanno un carattere mansueto e bonario. Sono i mangalitza (suini di razza ungherese) e la loro carne ha un sapore eccezionale. Ne abbiamo parlato con chi gestisce il più grande allevamento italiano.
La prima volta che ho sentito parlare di maiali mangalitza è stato all'incirca un paio di anni fa. In un locale di Viterbo assaggiai alcune focacce servite con salumi di questa razza di origine ungherese, sconosciuta sia a me sia (per forza di cose) a chi come il sottoscritto per molto tempo è stato figlio esclusivamente della grande distribuzione organizzata.
Non conoscevo i maiali mangalitza ma fui colpito dal gusto, dal sapore di quei prodotti così buoni e ghiotti, caratterizzati da un grasso squisito, dolce, capace letteralmente di sciogliersi in bocca. Insomma, una carne eccezionale, un tripudio al palato specialmente per chi per troppo tempo è stato abituato a merci industriali. Un'Epifania gastronomica.
Corrado, il proprietario del locale, mi parlò con entusiasmo di questa razza, spiegando come quei prodotti utilizzati in cucina provenissero da uno dei pochissimi allevamenti di mangalitza presenti in Italia. E, per di più, situato in provincia di Viterbo. La sorpresa quindi fu doppia: non avevo solamente scoperto una squisita carne di nicchia, ma anche che i maiali dai quali proviene (ricordiamo, non autoctoni ma originari dell'Ungheria) venissero allevati nel cuore della Tuscia viterbese, a due passi da casa. Proprio dove ci siamo recati per scoprire qualcosa di più su questa razza così speciale. E tra poco capiremo il perché.
Non è raro che stranieri in visita nel Centro Italia, tra Alto Lazio, Umbria e Toscana in particolar modo, rimangano affascinati da questo lembo di terra verde, ricco di storia, cultura, capace di alternare grandi paesaggi naturali a borghi antichi, secolari se non millenari (come, per esempio, Civita di Bagnoregio). Non è raro, conseguentemente, che molti di questi stranieri (con un discreto budget a disposizione) in visita nel cuore d'Italia decidano anche di lasciare il loro Paese, per trasferirsi (più o meno stabilmente) in queste zone dal grande fascino paesaggistico e storico.
È capitato tempo fa, verso la fine degli anni ’80, a una coppia di facoltosi tedeschi: Mocca e Fritz Metzeler rimasero stregati dal contesto paesaggistico e naturale attorno al lago di Bolsena, al punto non solo di trasferirsi praticamente sulle sponde del bacino vulcanico più grande d'Europa (tra le colline di Grotte Santo Stefano), ma anche di aprire e avviare un'azienda agricola capace di valorizzare, tra vino e olio, le eccellenze gastronomiche del territorio. Ma non solamente.
Quell'azienda è Villa Caviciana e, in Italia, è stata la prima ad accogliere un allevamento di maiali di razza mangalitza (razza che, anni fa, è stata anche vicina all'estinzione) cresciuti allo stato semibrado. Oggi l'azienda fornisce non solo locali della zona, ma anche ristoranti e botteghe gastronomiche fuori provincia (tra le quali Dol a Roma) ed extra regionali.
Ci siamo recati sul posto per conoscere in prima persona Fabrizio Nocci, responsabile e norcino, ma anche i numerosi maiali che segue, cresce e alleva praticamente sulle sponde del lago di Bolsena. Vari ampi recinti a contenere poche decine di esemplari, tra adulti e più piccolini, liberi di muoversi a loro piacimento, spazi dedicati al parto delle scrofe, all'ingrasso e una vasta macchia in cui gli animali possono scorrazzare liberi e indisturbati. A disposizione per i maiali, in totale, circa 85 ettari di terreno. Spazio fondamentale, scopriremo, per la resa qualitativa delle loro carni.
"Sono animali docili, mansueti, le madri non sono gelose dei cuccioli" ci dice Fabrizio, e in effetti avvicinandoci alle recinzioni i mangalitza si approcciano altrettanto incuriositi, intenti a studiare da vicino gli ospiti di quella che a tutti gli effetti è casa loro. E, forse, pure speranzosi di ricevere una piccola dose di cibo in più. Noi, per ingraziarceli, strappiamo un po' di erba e gliela porgiamo: una veloce annusata e via allo snack fuori orario. Assieme a Fabrizio, poi abbiamo approfondito la nostra curiosità su questa razza così peculiare già alla vista.
"Grazie a un'alimentazione specifica la carne di mangalitza può raggiungere un livello di omega -3 nel grasso molto importante, tra il 70 e il 73% – ci racconta Fabrizio – e per questo può essere consumato, con le dovute accortezze e nei giusti quantitativi, anche da chi per esempio soffre di colesterolo alto". Quella del mangalitza è una carne particolarmente oleosa e morbida, proprio grazie all'importante quantità di grasso, e questo al momento dell'assaggio la porta praticamente a sciogliersi in bocca.
"È però una carne che va spiegata al pubblico, introdotta, perché al giorno d'oggi ‘grasso' è sinonimo di ‘dannoso'. Il grasso del mangalitza, invece, è benefico per la salute proprio per l'alta presenza di omega -3. Pensate che, solo per fare un esempio, il patanegra ha circa il 60% di grassi buoni, mentre un prodotto tradizionale proveniente da un allevamento intensivo non arriva al 40%".
"Per marezzatura il mangalitza è paragonato al wagyu – continua il norcino viterbese – razza dalla quale si ottiene la carne di kobe. Di suo poi è già molto saporita, e all'occhio si presenta color rosso fuoco. Per capire la differenza, però, va provata e paragonata con altre carni".
È un'alimentazione molto genuina e sana quella dei maiali. Parlando nello specifico di Villa Caviciana, qui per gli esemplari destinati all'ingrasso è stata pensata una dieta speciale, a base di grano, soia e nocciole, per un quantitativo stabilito di 2 kg di mangime al giorno (dei chip elettronici collegati al distributore di cibo non permettono l'erogazione di un quantitativo maggiore). In più gli animali sono liberi di andarsene per la macchia, e lì mangiano ciò che trovano nel sottobosco. Tutto ciò contribuisce in modo importante alla resa qualitativa e alle sfumature di sapore delle loro carni. Alle madri, specialmente in fase di allattamento, viene destinata invece un'alimentazione maggiormente proteica.
Il periodo di svezzamento dei maiali dura all'incirca 5 mesi, dopo di che gli esemplari vengono destinati all'ingrasso fino al raggiungimento del 13° mese. Ma una volta cresciuti come si decide quali capi abbattere? "Andiamo a valutare la conformazione del maiale, la sua muscolatura, per scegliere quale sia più o meno idoneo per ottenere carni ottimali. Orientativamente, comunque, un esemplare viene abbattuto al 13° mese, quando possiede l'ideale strato di grasso: attorno ai 10 centimetri di spessore".
Al momento a Villa Caviciana 100 scrofe sono indirizzate alla riproduzione, con ognuna capace di garantire due o tre cucciolate all'anno: "…quindi ora tutti i maiali che nascono sono destinati all’ingrasso". Ci sono invece dei parametri che orientano la scelta su una scrofa destinata alla riproduzione? "I parametri delle femmine sono sui parti: se le cucciolate si assestano su un numero stabile di maialini, di media circa 6-7, la teniamo, in caso di numeri più altalenanti o una minor ‘resa' allora la andiamo a sostituire. In questo caso la femmina la facciamo abbattere e con le sue carni otteniamo salsicce e salami, ma ovviamente la carne non avrà la stessa qualità e ci sarà uno strato di grasso superiore".
"Per tutto il lavoro che c'è dietro – spiega Fabrizio – ovviamente il prezzo finale del prodotto è maggiore rispetto alle controparti tradizionali. Se per esempio queste costano, parlando di un prosciutto, 17 euro al chilo, il mangalitza lo si vende a 50 euro. Una gastronomia rinomata, poi, l'andrà a proporre a 200 o anche oltre". Il fatto per cui, per importare un esemplare maschio in Italia, servano quasi 20 mila euro giustifica il costo delle carni una volta lavorate.
Nessun utilizzo invece per la lana: "Il mattatoio, per questioni di igiene, non ce la restituisce, così come non ci vengono rese le interiora dell'animale. Riceviamo la carcassa e la parte della corata: fegato, cuore, lingua, milza e trippa".
Quello in provincia di Viterbo è il più grande allevamento italiano di questa razza ungherese. "Nel nostro Paese ne esistono altri, pochi, più piccoli però di questo, che sul territorio nazionale è il maggiore con i suoi 1000 esemplari allevati allo stato semibrado, tra macchie e prati, in circa 85 ettari di terreno". E pensare che qui tutto è iniziato quasi per gioco, quando la coppia di tedeschi fondatrice dell'azienda agricola volle nel proprio ampio giardino alcuni esemplari di mangalitza per brucare l'erba.
Dal 2006 in avanti si è iniziato a fare sul serio, pensando in un'ottica di business. L'allevamento intensivo degli animali, fortunatamente ci viene da dire, non è possibile: "… perché il loro benessere deve essere la cosa principale. Se si facesse allevamento intensivo si rovinerebbe la carne, si avrebbe grasso in eccesso, perché fondamentalmente il maiale sarebbe fermo e non avrebbe possibilità di muoversi. Ha bisogno di camminare, per sviluppare la propria muscolatura".
Difficoltà particolari per la loro cura? "L'allevamento è molto rustico – ci dice Fabrizio – si ambientano facilmente, nonostante sia una razza ungherese non soffrono il differente clima che abbiamo qua, e il fatto che siano particolarmente mansueti facilita il lavoro di chi li segue".