Quanto grano consuma, oggi, una popolazione di circa 60 milioni di persone? Perché crediamo che il grano italiano possa bastare per tutti? Una convinzione da ricondurre a Mussolini? Che cosa rappresentò la battaglia del grano.
Negli ultimi mesi, anche (se non soprattutto) a causa degli effetti causati dalla guerra in Ucraina, si è parlato molto di grano, di importazioni e di un'Italia che annualmente si trova costretta ad acquistare dall'estero il frumento per soddisfare il fabbisogno nazionale. In tanti nel nostro Paese si sono indignati di fronte ai dati di importazione di grano dall'Ucraina stessa, grande fornitrice di questa materia prima e definita, non a caso, il granaio d'Europa. Molti sono rimasti sorpresi da questo dato: attualmente il fabbisogno totale di grano in Italia (sia duro sia tenero) si aggira sulle 39 milioni di tonnellate annue, di cui 20 importate dall'estero. A tanti questi dati non vanno proprio giù: come può un Paese come il nostro, particolarmente vocato all'agricoltura, trovarsi a importare più della metà del grano di cui abbiamo bisogno? C'è qualche disegno ‘anti italiano' a livello europeo?
La motivazione è molto più semplice. Se ci basassimo solamente sulla produzione interna, infatti, le quantità non basterebbero per soddisfare la domanda complessiva, e per questo siamo costretti all'import di buona parte del frumento lavorato e consumato poi nel nostro Paese. Solo per il fatto di essere il principale produttore di pasta nel mondo ci sembra naturale come pure le farine vengano prodotte totalmente con grani italiani. Ma nonostante tutto ciò sarebbe molto bello, non è così. Secondo quanto dichiarato qualche tempo fa da Cosimo De Sortis, presidente di Italmopa, l’associazione che raggruppa le aziende che lavorano grano tenero e grano duro: "… per avere pasta a scaffale nei supermercati tutto l’anno – ha detto al Sole 24 Ore – dobbiamo necessariamente importare. Se utilizzassimo solo la produzione italiana, troveremmo la pasta in vendita solo quattro mesi all’anno". Un'ammissione esemplificativa della necessità nostrana di acquistare grano dall'estero per soddisfare la domanda generale. Grano che poi viene lavorato dalle aziende nazionali per la realizzazione di pasta e altri derivati.
Nonostante i dati, sotto gli occhi di tutti (perlomeno di chi vuole informarsi), sembrino incontrovertibili ancora in troppi credono come la produzione interna di grano non solo possa bastare per tutti, ma addirittura ‘debba‘ farlo non si sa esattamente in nome di cosa. Come se l'importazione, di per sé, diminuisse il senso di gastro-patriottismo generale che riversiamo sui prodotti (pasta e pane su tutti) della nostra tradizione cibaria, facendocene sentire meno ‘orgogliosi'. Uno spaghetto realizzato con farine importate? Vade retro.
Ma per quale motivo è così diffusa questa convinzione? Perché ancora fin troppa gente ritiene come l'Italia debba essere indipendente per quanto riguarda il fabbisogno di grano? Per quale ragione in tanti sono convinti che, alla fin dei conti, il frumento italiano possa bastare per tutti? Forse, oltre alla scarsa informazione (noi abbiamo provato a smentire delle false credenze sull'argomento) e appigli insensati quanto estemporanei all'italianità dei prodotti che consumiamo, sotto sotto un po' di responsabilità (anche a livello inconscio, inconsapevole) è da ricondurre a (disclaimer: è una provocazione) Benito Mussolini. E alla sua famigerata ‘Battaglia del grano‘.
Una politica che, numeri alla mano, avrebbe potuto anche avere un minimo senso un centinaio di anni fa, con una popolazione nazionale ben meno numerosa di quella attuale e, di conseguenza, un fabbisogno decisamente inferiore. Ma oggi le cifre sono totalmente diverse e ciò ci induce ad altri tipi di ragionamenti.
La battaglia del grano (nonostante il nome, non combattuta con baionette e polvere da sparo) fu un tentativo del regime fascista di rendere l'Italia indipendente dalle importazioni di grano tra gli anni 20 e 30 del secolo scorso. Il forte senso autarchico espresso e perseguito dalla dittatura ispirò Mussolini nel perseguire il suo obiettivo: far sì che l'Italia diventasse autosufficiente per quanto riguardava la produzione di frumento, limitando e riducendo al minimo l'import da fuori (soprattutto Stati Uniti e Canada).
A quel tempo, va specificato subito, la popolazione oscillava tra i 40 e i 45 milioni di italiani (a differenza dei 60 attuali) e il fabbisogno nazionale di grano era decisamente minore se paragonato a quella odierno con 75 milioni di quintali totali, di cui 25 provenienti da fuori. Fatto sta, il Duce fece bonificare non poche aree paludose del Paese (l'Agro Pontino e la Maremma su tutte), appoggiando anche colture sperimentali attuate in Puglia, nel Tavoliere, dove nacque il famoso grano Senatore Cappelli. Con queste intenzioni Mussolini lanciò la cosiddetta battaglia del grano nel 1925 con uno scopo pubblicamente dichiarato: l'aumento della produzione del cereale avrebbe cessato, o comunque diminuito, le importazioni dall’estero.
Sarebbe stato un successo, nelle intenzioni del Regime, sul quale Mussolini avrebbe costruito il consenso popolare. Certo, non fu proprio una politica così sostenibile: per far posto alle coltivazioni di grano infatti vennero sdradicati frutteti, agrumeti, vigne, oliveti. Dall'altra parte si cercarono incroci tra grani diversi in grado di restituire specie più resistenti alle intemperie e al clima avverso, nonché capaci di adattarsi a terreni di diversa natura da Nord a Sud del Paese. Furono in questo senso particolarmente soddisfacenti i risultati ottenuti dall'agronomo Strampelli (l'inventore del già citato grano Cappelli) nel Tavoliere pugliese, ma la battaglia del grano in non poche occasioni fu ‘combattuta' a scapito di altre colture, alcune pure destinate all'esportazione.
Basti pensare come si tentò di sostituire la coltivazione di lenticchie nella piana di Castelluccio di Norcia, ma con scarsi risultati (fortunatamente, col senno di poi, in quanto oggi ci saremmo persi uno degli spettacoli naturali più noti del Paese: la cosiddetta fioritura delle lenticchie). Complessivamente quale fu l'esito della battaglia del grano? Come specifica anche Wikipedia: "Nel 1931, solo sei anni dopo il lancio della campagna il Regno d'Italia riuscì ad eliminare un deficit sulla bilancia commerciale di 5 miliardi di lire e a soddisfare quasi pienamente il suo fabbisogno di frumento, arrivando ad una produzione di 81 milioni di quintali. Nel frattempo si era reso necessario un piccolo quantitativo di frumento in più, per via dell'aumento della popolazione, ma le importazioni di frumento quello stesso anno furono di 1.464.968 tonnellate, decisamente in calo rispetto alle 2.241.913 tonnellate del 1925″. Come spesso accade, però, c'è anche l'altro lato della medaglia. La battaglia del grano venne combattuta a scapito di altre colture, in particolar modo quelle basilari per l'industria zootecnica e, in genere, di un coerente sviluppo dell'agricoltura nazionale e di una biodiversità ora messa a rischio.
E chissà se, a livello inconscio, nel nostro dna non si sia mantenuta la convinzione di come il grano prodotto internamente possa bastare per tutti. Nonostante un aumento della popolazione di oltre 15 milioni di persone, con conseguente maggiore fabbisogno da dover soddisfare. Una necessità di cui l'Italia da sola evidentemente non può farsi carico (non siamo, tra l'altro, un territorio notoriamente pianeggiante e adatto alla coltura del frumento), portando quindi a rivolgersi ai mercati esteri.