Se pensavate che l’utilizzo in cucina delle alghe fosse un'esclusiva giapponese, o comunque della gastronomia orientale, ci pensa questa rara alga siciliana a farvi cambiare idea. Alla scoperta della rossissima e ormai quasi introvabile 'U Mauru.
Wakame, kombu, nori, arame, mauru. Per la serie… trova l’intruso. Complice anche l’esplosione della moda legata al sushi e preparazioni giapponesi negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere i nomi di vari tipi di alghe. E se vi dicessimo che, nell’elenco sopra citato, ve ne è una specie non legata (solamente) al Paese del Sol Levante ma fortemente connessa alla tradizione della nostra amata Sicilia?
Si tratta dell’ultima menzionata, quella che in Trinacria sono soliti chiamare ‘U Mauru, variante dialettale catanese per intendere màguru, magro nel suo significato letterale. Non è, precisiamo, il nome specifico dell'alga, ma in origine di un'insalata a base di alghe rosse commestibili il quale, poi, è stato adottato per indicare la stessa pianta marina.
Questa tipologia di alga rossa edibile è di tipo filamentoso, particolarmente sottile, dal sapore forte (quasi ferroso, simile al fegato) spiccatamente sapido e dalla consistenza callosa. In realtà presente ovunque nel mondo ci siano le condizioni adatte per la sua crescita e sopravvivenza (soprattutto Spagna, Portogallo, coste del Pacifico o Grecia), ma in Sicilia, lungo i litorali lavici, rappresentava una vera e propria prelibatezza. Un cibo popolare, largamente consumato e diffuso, mentre oggi il suo utilizzo è limitato data la sua rarità e la “quasi” illegalità che l’accompagna.
Ma questo, in verità, è un aspetto particolarmente controverso e poco chiaro, legato forse più alla credenza popolare che altro: vedremo, infatti, come non ci siano leggi a disciplinarne con criterio raccolta e consumo. Fatto sta, la vera impresa oggi come oggi è a monte: riuscire a trovarla è quasi impossibile.
La Trinacria si conferma dunque scrigno di peculiari tesori cibari: se qualche settimana addietro vi avevamo parlato di una particolare farina (a base di segale cosiddetta “cornuta”) che decenni fa causò allucinazioni di massa agli abitanti dell’isola di Alicudi, stavolta parliamo di un altro prodotto straordinariamente singolare, difficile da trovare e parte della gastronomia sicula che fu. Questa speciale tipologia di alga rossa è capace di crescere solamente in particolari zone costiere, laddove ci siano scogli e rocce di natura vulcanica, ma soprattutto un mare limpido e non inquinato. Si capisce insomma, specialmente per quest’ultimo “parametro”, come ormai scovarla sia quasi impossibile.
Se oggi il Giappone detiene il primato mondiale per quanto riguarda il consumo e l’esportazione di alghe (centrali nell’alimentazione dei locali), in pochi forse sanno che fino a qualche decennio fa anche in Sicilia era particolarmente importante l’utilizzo in cucina di questa particolare varietà rossa. Il nome Mauru a chi non è della zona orientale dell’isola forse non dirà molto, ma agli abitanti di Catania e limitrofi (almeno quelli con qualche anno in più) sarà sicuramente famigliare. Quest’alga commestibile un tempo cresceva rigogliosa sulle coste del litorale ionico, al punto da essere considerata una specialità gastronomica locale. Consumata con sale, limone e un filo d’olio oppure a mo’ di insalata col pesce: veniva mangiata sia dai pescatori sia dai locali, ma chiunque volesse provare qualcosa di caratteristico della zona aveva la possibilità di assaggiarla.
Chondrachantus teedei il suo nome scientifico, rigogliosa un tempo nei pressi degli scogli di origine vulcanica. Oggi, sfortunatamente, trovarla rappresenta un vero colpo di fortuna: a causa dell’inquinamento dei mari quest’alga non riesce più a crescere, proprio perché non trova condizioni per la sopravvivenza se non in acque limpide e incontaminate. Facile intuire come siano ormai pochissimi i ristoranti o le locande capaci di proporre un piatto a base di ‘U Mauru, e di sicuro i “cercatori” non sono propensi a condividere con altri le loro zone di “caccia”. Un po’ come avviene nel mondo della cerca del tartufo. Ognuno custodisce gelosamente i suoi segreti “professionali”.
Pensate, un tempo questa alga rossa oggi praticamente introvabile veniva consumata in chioschetti sul mare o venduta nei mercati del pesce locale. Non era raro però che anche i pescatori la mangiassero come una sorta di “merenda”, uno spuntino, di ritorno dalla loro battuta. Oggi la sua presenza, almeno quella siciliana, è racchiusa in un tratto costiero di poche decine di chilometri, e non è nemmeno detto che la si riesca a trovare con regolarità durante la sua stagione (orientativamente da marzo a giugno). Proprio perché, ormai, sono pochi i tratti di mare non inquinati che ne permettono la crescita.
Qualora abbiate in programma un viaggio in Sicilia dunque non sperate troppo di assaggiare ‘U Mauru. Ci spiace disilludervi, ma ormai sempre meno pescherie o trattorie trattano questa alga. Il motivo? Pur crescendo in acque di base poco inquinate, secondo l’opinione comune permane il pericolo che l’alga possa assorbire tossine ugualmente presenti in mare, rivelandosi poi poco adatta (se non sconsigliata) al consumo.
Il dubbio sorge spontaneo: se si tratta di una pianta marina che necessita di estrema limpidezza del mare, come può convivere con eventuali sostanze tossiche? Il mistero rimane e non pare esserci (ancora) una legge capace di fugare gli eventuali dubbi. Questa incertezza, oltre alla sua irreperibilità, ha reso ‘U Mauru da ingrediente un tempo di consumo popolare a materia prima rarissima, quasi gourmet.
Detto che riusciate a trovare qualcuno in grado di offrirvi questa speciale quanto rarissima alga rossa, come potete mangiarla? Un tempo sulle coste catanesi la si consumava con pepe, limone, olio e sale, praticamente in purezza, ma la si può anche cuocere per smorzare il suo tono ferroso e pungente, capace di rimanervi in bocca per lungo tempo. Come “accompagnamento” a un primo ai frutti di mare, assicura chi l’ha provata, ha il suo perché.
Il prezzo? Alla luce di quanto detto il costo di circa 30 euro al chilo risulta piuttosto comprensibile.
Foto cover dal canale Youtube Θεόδωρος Φωτιάδης