Quello delle robiole è un mondo meno conosciuto al grande pubblico, con tanti prodotti diversi tra loro in base alla materia prima, latte vaccino, di capra o di pecora dislocati soprattutto tra Piemonte e Lombardia.
La robiola è un formaggio tipico del Nord Italia, noto principalmente per la sua cremosità e il sapore delicato, da usare come fosse uno stracchino o una crescenza. In realtà, quella che vediamo al supermercato è la sua versione più standard, pratica e versatile, destinata a un maggior pubblico possibile. Nelle sue tipologie più lontane dall’immaginario comune, la robiola ha in realtà un variegato universo di forme, dimensioni, consistenze e sapori, a seconda che venga prodotta con latte vaccino, caprino, ovino o una combinazione di questi. Si tratta di specialità casearie del settentrione, spesso di nicchia, radicate soprattutto in alcune aree della Lombardia e del Piemonte, dove spicca anche una Dop, quella di Roccaverano.
Generalmente le robiole sono formaggi grassi a pasta molle e a crosta fiorita (tipo quella del brie e del camembert) ed edibile, freschi o a breve stagionatura, da gustare al naturale in taglieri per l'aperitivo o a fine pasto, accompagnate da composte e confetture, per farcire un panino, oppure si prestano a essere usate come ingrediente in risotti e pastasciutte, per dare cremosità e un tocco raffinato. Andiamo alla scoperta delle più famose robiole italiane e come abbinarle al meglio.
Iniziamo il tour con l’unica robiola made in Italy ad avere la Denominazione di Origine Protetta, quella di Roccaverano, il paesino più rappresentativo della Langa Astigiana e che conta appena 368 abitanti. La sua popolarità è dovuta soprattutto a questo formaggio che qui si produce tutto l’anno in una manciata di comuni tra le province di Asti e di Alessandria. Si tratta di una specialità realizzata secondo un rigido disciplinare, che dal 2023 la vuole solo 100% latte crudo di capra delle razze Roccaverano, Camosciata Alpina o loro incroci: può essere fresca, affinata (dall’undicesimo giorno che è stato messo negli stampi) o stagionata (per 3 o più mesi), ha un colore che va dal bianco all’avorio, con una crosta fiorita appena accennata o più presente, che si fa rossiccia con la maturazione. Si caratterizza per avere una forma cilindrica appiattita dalla superficie screpolata, con dischi che vanno dai 250 ai 400 grammi: la sua pasta è morbida, con una grana fine, cremosa, che diventa più compatta con la stagionatura, così come il sapore da delicato, vegetale e leggermente acidulo si fa via via più deciso. Siamo di fronte a un formaggio da tavola da accompagnare con miele o composte di frutta, e con le salse tipiche della regione, come la salsa verde o il bagnetto rosso. Si usa anche come farcitura per paste ripiene. Il vino? Non può mancare: scegli un calice di Barbera o Grignolino d’Asti.
Restiamo nell'Alta Langa, per conoscere un’altra protagonista del territorio, la Robiola Bosina, che si distingue per la sua forma quadrata. È un formaggio semi stagionato (la stagionatura è di almeno 15 giorni) a pasta molle, realizzato con latte misto di vacca e di pecora di Roccaverano: all’esterno ha una crosta fiorita di color bianco avorio, mentre una volta tagliato nasconde un interno senza occhiature, morbido e dal cuore burroso. Il gusto è dolce, delicato, con note di fieno al palato. Si serve a temperatura ambiente, così da apprezzare la cremosità, rivelandosi una robiola ottima a fine pasto, con frutta secca o fresca (come l’uva), oppure con composte piacevolmente piccantine, tipo la mostarda di fichi.
Siamo in piccolo borgo montano, definito la "Riviera del Monferrato" per il suo microclima mediterraneo che lo rende una delle destinazione più apprezzate dagli amanti dello slow tourism. Dai casari locali che la producono come avveniva in passato, arriva la Robiola di Cocconato (inserita all’interno dei PAT, i prodotti agroalimentari tradizionali del Piemonte), perfetta da gustare in purezza, in accompagnamento a pane e grissini, “ugualmente buona nei campi o al tavolo dei signori” come cantava il poeta Nino Costa (1886-1945), che le dedicò alcuni versi. Si realizza con latte vaccino intero pastorizzato, ed è pronta per essere consumata fresca nel giro di cinque giorni dalla formatura: l’aspetto è tondo e appiattito, di colore bianco e senza crosta (al massimo è sottile se la robiola è più matura), mentre la pasta è morbida e più cremosa nel mezzo, dal sapore lattico e lievemente acidulo. Si dice che sia un formaggio messo a punto dalle donne contadine più di 100 anni fa.
Ci spostiamo in Bassa Langa, in uno dei suoi centri più famosi, la città di Alba, che ci regala la Robiola d’Alba, prodotta nei caseifici del cuneese, rientrando tra i PAT. La materia prima è il latte vaccino intero, crudo o pastorizzato: la struttura è morbida (siamo sempre all’interno dei formaggi a pasta molle), ma allo stesso tempo consistente, friabile e umida: si presenta di forma cilindrica con un diametro di 11-12 cm e spessa dai 2 ai 2,5 cm: è solitamente fresca, con una stagionatura facoltativa, così da avere un colore bianco, che può tendere all’avorio quando leggermente fatta maturare, priva di crosta o con sottile crosta fiorita. Sa di latte fresco e yogurt, con un aroma lievemente erbaceo. La si trova al naturale, ma spesso è anche aromatizzata con il tartufo, il peperoncino, l’erba cipollina o la rucola. Tutte sono ideali come antipasto, per dare raffinatezza a un tagliere di salumi e formaggi o nei risotti: in particolare, quelle arricchite sono ancora più gustose se condite con un filo d’olio. I vini? Punta su un bianco fruttato ed elegante come il Roero Arneis.
Ci trasferiamo in Liguria, dove incontriamo uno dei formaggi ovini più antichi della regione. La Robiola della Val Bormida, zona che si sviluppa al confine del Piemonte, in provincia di Savona, tra le Alpi e gli Appennini, è un PAT a base di latte crudo di pecora: solitamente è freschissimo (può maturare fino a 10-14 giorni), a cilindro o parallelepipedo, bianco candido, dalla consistenza cremosa e dalle dimensioni più ridotte rispetto ai precedenti. La crosta è solitamente assente, mentre quando compare è definibile come uno strato di “pelle” rugoso, dal colore paglierino. Come valorizzare al meglio questa robiola dal sapore delicato? Abbinandola con salumi e verdure di stagione, mentre il vino sceglilo bianco e leggero, come il Gavi piemontese.
Dalla Lombardia arriva un altro PAT tra le robiole, quello della Valsassina, in provincia di Lecco, che regala un formaggio quadrato un po’ diverso da quelli appena trattati, molto più simile al Taleggio Dop, anche se la lavorazione e i tempi di stagionatura sono differenti. Prima di essere consumata la robiola deve maturare per 30 giorni, arriva generalmente anche a 60, in grotte o cantine: questo significa che all’esterno si formerà una crosta rosata o giallognola, detta crosta lavata (trattata quindi con una soluzione di acqua e sale) dove appaiono le caratteristiche muffe grigie, perfettamente visibili, mentre la pasta molle all’interno sarà morbida e cremosa, di colore avorio. Si prepara a partire dal latte vaccino, ed è considerato un formaggio a pasta cruda semi molle, con un gusto che ricorda quello intenso del già nominato taleggio, ma più tenue. Via libera a taglieri, in tandem con fichi caramellati, melanzane sott'olio, ma anche come ingrediente per fondute in piatti di pasta e gnocchi, in compagnia di noci e speck.
Sempre in Lombardia, sempre PAT: ecco la Robiola bresciana, di cui si hanno testimonianze già a metà dell’800, diffusa nella Bassa Bresciana, in Franciacorta, nella zona del Lago d’Iseo e anche nella provincia di Bergamo. Viene detta smorzasoel, formaela, rubiulina e nella rinomata terra dei vini spumanti la si reperisce come strachì bianc, per distinguerla dallo strachì vert, ovvero il gorgonzola. Si tratta di un formaggio dalla forma quadrata e rettangolare che si divide in due varianti: una dalla consistenza tenera, di colore bianco, senza crosta, con pasta morbida, mentre l’altra dura si caratterizza per avere un sottile strato di pelle di colore giallo o rossastro, con una pasta friabile che con il tempo tende a cedere, diventando più fondente. Una volta, la sua produzione era a livello familiare, con il latte vaccino che avanzava dalle aziende zootecniche sparse nell’area, mentre ora da formaggio “umile” si sta sempre più rivalutando: provalo nei risotti, specialmente quelli autunnali a base di funghi porcini e zucca.
Concludiamo il nostro giro in Emilia Romagna, in una zona di produzione che interessa in particolare la provincia di Piacenza, nei territori appenninici della Val Trebbia e Val Nure, dov’è classificata tra i PAT regionali la cosiddetta “ribiola della Bettola” (o Ribiol), un formaggio realizzato con latte vaccino parzialmente scremato dalla panna di affioramento, semiduro, semistagionato e semigrasso. La crosta è ruvida, di colore giallo, regolare, e la pasta è bianco-paglierino, con occhiature presenti: si serve a fine pasto, tradizionalmente con vino rosso locale, tipo il Gutturnio dei Colli Piacentini, ma nulla vieta lo sposalizio con lo gnocco fritto. In passato questa robiola prevedeva anche l’uso di latte di pecora: da questo punto di vista esiste ancora la Robiola di Castel San Giovanni, inserita tra i prodotti tipici, dove nella lavorazione del latte misto è prevista l’aggiunta di zucchero, sale, grappa o vino bianco. Dopo aver maturato 15 giorni viene riposta in recipienti di vetro sott’olio e conservata, così da diventare piccante con l’invecchiamento.