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16 Dicembre 2024 11:53

Report sfrutta l’irascibilità dei napoletani per un surreale servizio sul caffè

La trasmissione di Rai 3 fa un servizio per mostrare quanto bassa sia la qualità del caffè a Napoli ignorando che questo problema è comune in tutta Italia. Ne esce fuori una visione macchiettistica della città campana in totale antitesi con il resto del Paese.

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Il caffè a Napoli fa schifo, solo a Napoli fa schifo evidentemente per Report che ha fatto un servizio intitolato "La Repubblica della Ciofeca" incentrando tutto il contenuto sulla città partenopea. Campane sporche, filtri non puliti, purge non effettuato (cioè la pulizia della doccetta dell'acqua), beccucci non igienizzati, tazzine bollenti, cucchiaini bollenti, caffè zuccherati. Questi i principali capi d'accusa ai bar napoletani popolati da grezzi dottori laureati all'università della strada, senza una minima formazione teorica. È tutto vero e il caffè nella mia città è di un livello infimo ma il sospetto che mi viene è un altro: incentrarlo su Napoli sembra più una presa di posizione, perché Napoli fa notizia, che una vera e propria volontà di fare informazione.  Il giro nelle altre città è stato sommario: una citazione in elenco con i pregi e i difetti di un singolo bar visitato, senza alcun tipo di contesto.

Non sono le città a fare i caffè, o le pizze, o le paste. Sono i singoli professionisti a fare queste cose. Il problema della qualità del caffè è nazionale, non cittadino. Sarei davvero felice se l'unica città in cui si fa un pessimo caffè fosse la mia ma purtroppo non è così. Finché non usciamo dall'idea nazional popolare che a Roma si fa una buona carbonara, a Napoli la pizza e a Bologna i tortellini continuiamo a fare una narrazione gastronomica di pura fantasia. È un peccato e sono sinceramente dispiaciuto di aver visto un servizio del genere perché se fosse stato decontestualizzato sarebbe stato da incorniciare: il caffè si fa in un altro modo e merita una dignità maggiore ma dal servizio non esce questa notizia, dal servizio esce che a Napoli il caffè è meglio non prenderlo se vuoi sopravvivere.

In giro per Napoli quartiere per quartiere e una visita spot nel resto d'Italia

La maggior parte dei problemi, stando al servizio di Bernardo Iovene, nascono a monte, con una tostatura violenta che porta l'amarezza nel caffè oltre a tutti i sapori rancidi dati dalla macinatura preventiva. Le sostanze all'interno dei chicchi sono volatili e dopo 15 minuti solitamente perdono ogni tipo di valore. Vedere quelle campane (sporche per giunta) tenere chili di prodotto già macinato non porta che problemi alla tazzina finale.

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Secondo Mario Rubino, presidente di Kimbo, "Ai napoletani il caffè piace arruscato, ovvero non bruciato, ma una situazione fisica che non ha raggiunto ancora il punto di bruciatura, ma è la massima espressione contenuta negli aromi dei chicchi di caffè. La convinzione di questa mia idea nasce dal gusto tipicamente napoletano". Perché lo tosta in questo modo? Rubino dà la risposta che darebbe qualunque imprenditore di qualsiasi nicchia specifica: "Ciascuna azienda produce un prodotto che va per la maggiore".

L'imprenditore prova ad arrampicarsi sugli specchi dicendo addirittura che i napoletani hanno "delle papille geneticamente modificate per apprezzare questo sapore arruscato che è anche nella parmigiana, nel ragù, nella genovese, nella pizza" e sta facendo delle ricerche scientifiche per dimostrare questa convinzione. Fa sorridere questa teoria perché Rubino è un medico e si è riconvertito come imprenditore per portare avanti l'azienda di famiglia ma è un uomo di scienza. Ovviamente nessuna papilla gustativa è stata geneticamente modificata, almeno in base ai dati che abbiamo attualmente ma siamo curiosi di vedere gli esiti della ricerca di Kimbo.

L'autore del servizio centra però il punto della situazione: "Probabilmente più che geneticamente modificate queste papille sono state abituate geneticamente a bere un caffè non di alta qualità, trattato senza cautela da baristi improvvisati". Ha più che ragione ma sbaglia nuovamente additando i napoletani perché il problema non è locale ma nazionale. Iovene fa un giro anche in altre città (solamente citate per pochi secondi): Roma, Bergamo, Firenze, Trieste, Bologna, Milano. In tutti i bar mostrati ci sono dei problemi di pulizia, estrazione, formazione e solo pochi sanno davvero la materia trattata. Ovviamente questo non viene sottolineato per il resto d'Italia ma il giro approfondito si fa solo a Napoli.

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Ma torniamo alla questione precedente: non è "Roma" che fa il caffè ma il bar in cui è andato Iovene. Ci sono dei bar straordinari in ognuna delle città visitate per il servizio (sì, perfino a Napoli) che seguono tutte le direttive date dai grandi degustatori e infatti fanno un grandissimo prodotto. Sono pochi, sono delle mosche bianche e non c'è una singola città in Italia che ha la prevalenza di caffetterie di qualità rispetto alle caffetterie scadenti. Iovene cita un bar su via Tribunali che a quanto pare è l'unico degno in città ma vi assicuriamo che non è così e ci sono molti bar che fanno un lavoro encomiabile.

Questo è il punto su cui battere: il livello medio del caffè in Italia è pessimo perché noi siamo abituati male. A dirla tutta non è che all'estero siano più bravi (checché ne dica Iovene che cita un bar di Creta, in Grecia). Anche fuori dai nostri confini ci sono determinati problemi ma sono meno visibili perché all'estero sono abituati a usare molte estrazioni diverse (filtro, french-press cold brew e via dicendo) ma trovare bar buoni nel resto del mondo è complicato quasi come in Italia. Addirittura nel servizio si cita Illy, una delle aziende più attente al tema del caffè di qualità, che da qualche anno ha capitolato per assecondare i gusti del mercato e fa un caffè molto tostato, con i chicchi neri e oleosi (cosa da evitare), che viene scelto da centinaia di bar sparsi per lo Stivale proprio perché "incontra di più il gusto italiano".

Non sono quindi le papille gustative dei napoletani ad avere dei problemi (o delle risorse stando a Kimbo), sono le papille gustative di tutti gli italiani. Perché la verità è questa: se hai mangiato tutta la vita una pasta scotta, quando la mangi al dente ti sembrerà dura, terribile ed è uno dei principali problemi che hanno i ristoranti in Italia quando hanno a che fare con gli stranieri, o che hanno i ristoratori italiani all'estero. Se siamo abituati a bere costantemente un caffè sporco e difettato, ci sembrerà per forza di cose un buon caffè. Non è neanche detto che un caffè fatto correttamente ci piaccia ma è sempre una questione d'abitudine. Sta di fatto che quando costringo mio padre a bere un caffè di qualità, senza zucchero, lo sento nel profondo che mi maledice perché non è abituato ai veri gusti del caffè ma ha una percezione sballata da 60 anni di assaggi precedenti.

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Per migliorare questa situazione, un po' com'è stato fatto con la pizza, bisogna divulgare un messaggio positivo senza estremizzare il contenuto. Molto spesso vedo i baristi italiani ergersi su un piedistallo e allontanare il pubblico con un linguaggio che rasenta il bullismo. Ti assicuro che se spieghi a una persona, in maniera calma e cortese, cosa dovrebbe sentire in un buon caffè, magari facendoglielo assaggiare e dandole la bustina di zucchero come la copertina di Linus pronta alla bisogna, il processo graduale è molto più facile da portare a termine rispetto a quanto visto su Rai 3 in prima serata in cui baristi e clienti vengono quasi derisi dal giornalista.

Detto ciò chiudiamo come ha chiuso Sigfrido Ranucci: l'acqua sporca delle macchinette non è un problema per la salute pubblica secondo l'Asl ma il professor Matteo Russo ci tiene a sottolineare che quando le particelle del caffè "restano troppo esposte al calore e a più filtrazioni potrebbero generare delle sostanze potenzialmente tossiche che si liberano con le alte temperature". Non dice che bisognerebbe bere migliaia di litri di quest'acqua sporca per ammalarsi ma dirlo avrebbe ostacolato la narrazione allarmista.

Il problema della formazione

Un altro punto della questione trattata da Report è la formazione dei baristi napoletani (nel resto d'Italia sono laureati evidentemente). Il giornalista è andato in giro a chiedere come ci siano finite queste persone dietro la macchina del caffè e hanno dato tutti una risposta unanime: "università della strada", dopo le medie o dopo due anni di superiori, per racimolare qualche soldo, hanno cominciato a lavorare nei bar e quindi il loro sapere si basa su ciò che gli dicevano i capi del tempo. Da un punto di vista antropologico è anche affascinante: la questione delle tazzine bollenti non ha alcun fondamento scientifico ma dalle parole degli intervistati è evidente un credo cieco in questo dogma antico. Vale per i baristi ma vale anche per le persone comuni: credenze popolari, tramandate di generazione in generazione, che sono difficili da sconfiggere. Ancora oggi vediamo persone convinte che bisogna fare la montagnella per fare un buon caffè o che la macchinetta non vada mai lavata per non perdere il gusto del prodotto. È lo stesso ragionamento di fondo, che tu lo faccia a casa o al bar.

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Ancora una volta ripetiamo che il discorso base di Report è sacrosanto: serve una specializzazione, serve conoscere la materia, serve studiare. È fondamentale e ogni giorno questa necessità viene sempre più richiesta dal pubblico ma proviamo a contestualizzare il tema. Il 5,9% dei napoletani tra i 12 e i 52 anni non ha la licenza di scuola secondaria inferiore (ex scuola media) secondo i dati Istat. I corsi da barista costano, non c'è alcun indirizzo pubblico che porta queste persone a specializzarsi in una materia così importante ed è difficile, in una situazione di precarietà, pensare di investire migliaia di euro per lavorare. Sarebbe consigliabile, senza dubbio, ma non è sempre immediato il passaggio soprattutto in una città dove c'è questo tipo di dispersione scolastica: anche solo far capire il valore della formazione gratuita è complicato, figurarsi far capire il valore di una formazione a pagamento. E non ci addentriamo su ipotesi fantasiose di lavoratori a nero che potenzialmente sono stati intervistati e che non avrebbero neanche le garanzie giuridiche per decidere di prendersi delle pause e studiare per formarsi.

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