Le nonne: maestre o anche semplici fonti di ispirazione per tanti grandi chef contemporanei. Abbiamo interpellato alcuni rappresentanti dell'alta cucina per farci raccontare cosa ricordano dei piatti preparati dalle loro nonne. Tra passato e presente, un viaggio tra Emilia, Puglia, Lombardia e Sicilia.
"Buone queste lasagne eh, ma quelle che faceva mia nonna…", quante volte, mangiando al ristorante oppure da amici (con i quali almeno abbiamo molta confidenza) abbiamo pronunciato (o ci siamo sentiti dire) questa frase. Quasi una sentenza. Un paragone dal quale è impossibile sfuggire, oggi, per tanti piatti che ci ritroviamo ad assaggiare, "vittime" inconsapevoli di un confronto con le preparazioni che hanno caratterizzato la nostra infanzia e giovinezza.
Lasagne, fettuccine, ravioli, tortellini solo per citarne alcuni, nessun piatto sfugge al "dualismo" (spesso perso in partenza, anche per questioni affettive) con la cucina delle nonne.
Inondati come siamo, anche grazie (o a causa?) della tv dall’alta ristorazione e da chef dalle personalità più o meno costruite per esigenze televisive, la genuinità della cucina che fu la si ritrova per lo più nella tradizione gastronomica più pura, famigliare e condivisa del nostro Paese.
Una tradizione che vive, rivive e sopravvive nelle conoscenze, nelle tecniche ma soprattutto nei piatti realizzati dalle nonne, capaci con le loro preparazioni non solo di costruire o indirizzare le nostre preferenze, ma anche di lasciarci un segno indelebile sui piatti, odori e sapori dell'infanzia di ognuno di noi.
Da questo assioma, praticamente, non sfugge quasi nessuno, da semplici amanti del buon cibo a cuochi e chef più o meno affermati. La cucina delle nonne è sempre lì, in un’ideale cassetto della nostra memoria (gustativa e mentale) pronta a essere rispolverata e menzionata ogni qualvolta l’occasione lo richieda. Anche, banalmente, per fare un paragone tra ciò che è e ciò che è stato.
“Buone queste lasagne eh, ma quelle che faceva mia nonna…”, per l'appunto.
Nell’immaginario collettivo la cucina delle nonne è l’emblema dell’abbondanza e della convivialità, e la loro presenza tra i fornelli è simbolo, anzi garanzia, di lauti pasti preparati in casa. In particolar modo di pasta fresca fatta a mano e stesa su un tagliere di legno con il matterello.
Seppur con le dovute differenze la scena, impressa nella nostra mente come una sorta di archetipo, è sempre la medesima: la nonna che lavora l’impasto, il sinale sporco di farina, le mani ruvide solcate dalle rughe ma al contempo delicate nella loro mnemonica azione, i gusci d’uova raccolti in una ciotola dedicata mentre i tuorli sono già amalgamati nell’impasto.
La nonna in cucina veglia e dalla tavola tutto sorveglia. È custode di ricette classiche e immortali, è colei che solamente ripetendo gestualità di una meccanica artigianalità rinnova il rito laico della convivialità domestica, fondamenta delle varie preparazioni casalinghe destinate a tutta la famiglia.
Portavoce, le nonne, di una cultura gastronomica precisa e identificata: quella delle famiglie riunite nei giorni di festa (e non solo in occasione delle ricorrenze più importanti) che quasi si sta perdendo nel marasma del mondo contemporaneo. Un mondo che sembra avere fretta di andare avanti, evolversi, con il rischio di dimenticare il passato che fu e apparentemente noncurante di ciò che sta lasciando alle spalle. Impaziente, quasi a qualunque costo, solamente di scoprire ciò che gli riserverà il futuro.
Quante volte, nel corso delle varie interviste, abbiamo letto o ascoltato chef ricordare le proprie nonne come prime loro “maestre”. Figure grazie alle quali è avvenuto l’avvicinamento alla cucina, alle materie prime e al loro utilizzo seppur ancora prettamente domestico. Proprio da qui abbiamo preso spunto decidendo di interpellare direttamente alcuni protagonisti dell’alta cucina italiana, chiedendo loro cosa ricordino e si portino dietro della cucina delle nonne. Ne sono uscite storie variegate, curiose, intime: Valentino Cassanelli, Solaika Marrocco, Nicola Fanetti e Antonio Cicero hanno condiviso i ricordi legati alla cucina delle nonne.
Non poteva non esserci il cibo nel futuro professionale di chi è nato e cresciuto nel cuore della Food Valley italiana. Valentino Cassanelli, classe 1984, originario della provincia di Modena oggi è lo chef del ristorante Lux Lucis di Forte dei Marmi (1 Stella Michelin), consigliato alla proprietà da Carlo Cracco, dal quale Valentino ha appreso molti trucchi dell’arte durante la sua esperienza milanese.
Molto prima di Cracco l’approccio alla cucina, da giovanissimo, grazie alle sue nonne e ai chilometri di pasta fresca (ci troviamo in Emilia, dopo tutto) visti tirare dalle loro sapienti mani durante ogni giorno di festa.
Valentino non poteva non partecipare a questo rito quasi sacro: “Ricordo la nonna materna, Nina, che ogni weekend preparava la pasta fresca per tutta la settimana. Di origine bolognese, mi coinvolgeva nella preparazione di tortellini, tagliatelle, spaghettini da fare in brodo e maltagliati. Ricordo che spesso mi rimproverava perché mangiavo il ripieno crudo: lo adoravo!”, ci racconta lo chef con l'inconfondibile accento emiliano.
Non solo pasta fresca, l'infanzia di Valentino è segnata anche da altre prelibatezze: “L'altra nonna Ada, modenese, preparava delle straordinarie cotolette ripassate in tegame coi piselli e un pollo arrosto con patate e pomodoro di cui ancora sento il profumo, mi basta chiudere gli occhi”. Primi o secondi, la parola d’ordine in preparazione era partecipazione: “È d’obbligo, in cucina non si sta mai a guardare”. Il piatto preferito dal piccolo Valentino, però, era forse un altro: “Mi ricordo in particolare la semplicità e l’essenza del pancotto al parmigiano; frutto di una ricetta povera, circolare se vogliamo, che metteva in tavola la condivisione culturale e portava in lei un sorriso malinconico di tempi andati”.
E chiudendo gli occhi, tornando indietro non solo con i ricordi ma anche con i sensi, sono due gli odori che Valentino ricorda maggiormente: “Indelebili il brodo e il ragù, che quando mi alzavo erano già sul fuoco a sobbollire e inondavano casa di profumi domenicali”.
Ricordi e sensazioni che Valentino ha voluto anche riproporre in uno dei suoi menu passati: “Qualche anno fa realizzavo un piatto chiamato Radici. Si trattava di una polpetta cruda di mortadella, vitello e mallo di noce, servita con un estratto di radici e un brodo di soffritto. Tutto ruotava attorno al ricordo del profumo tra brodo e ragù che si univa al ripieno crudo del tortellino e i fumi del nocino preparato sul terrazzo di casa”. Gli insegnamenti più cari per Valentino “… la cura, il sacrificio e la voglia di condivisione”. Un ultimo desiderio, poi, non prettamente legato all’assaggio di un piatto specifico: “Oggi mi basterebbe poter ricondividere la mia tavola con le mie nonne”.
Ha conquistato una meritatissima Stella Michelin solo pochi mesi fa Solaika Marrocco. Giovanissima chef classe 1995 del Primo Restaurant (Lecce) e originaria di Gallipoli, pur non avendo abitato nello stesso paese di sua nonna ha ancora vivide le immagini delle preparazioni dei giorni festivi. “… Anche se non ho molti ricordi da bambina della nonna, perché passavo tanto tempo con mia madre in cucina a casa. Una cosa me la ricordo bene però: la crostata preparata ogni domenica per tutti i nipoti con le marmellate di frutta realizzate da lei, diverse ogni stagione”.
“Da piccola mi è stato difficile cucinare assieme a lei, ma quando andavo a trovarla mi piaceva osservarla all'opera e spesso scherzavo con lei. Nonostante tutto, però, oggi mi porto dentro lo stesso amore che ci mette lei nel preparare da mangiare”. Durante le festività i principali momenti di condivisione e convivialità, come per esempio a Natale “… quando erano intramontabili le schiacciatine di carne fritte e i fritti delle festività, ovvero i purciadhruzzi”.
Il ricordo della cucina della nonna per Solaika passa anche attraverso i piatti preparati a casa dalla madre, diretta testimone e messaggera di tempi andati: “La cucina della nonna me la fa ricordare costantemente mia madre quando mi prepara i piatti che lei mangiava durante la sua giovinezza, e me li racconta. Si tratta soprattutto di preparazioni a base di legumi, verdure e ovviamente la salsa di pomodoro”.
Sui piatti che vorrebbe far assaggiare a sua nonna Solaika non ha dubbi. Ingredienti e sapori pugliesi, rivisitati però in chiave moderna: “Lo spaghettone al datterino giallo, origano e peperoncino caramellato oppure i turcinieddhi glassati alla birra con marmellata di cipolla all arancia, critmi in tempura e luppolo. Ancora non ho avuto occasione di farglieli assaggiare, spero comunque di poter rimediare al più presto".
Lavora nell'attuale Capitale dell’alta ristorazione mondiale. A Copenaghen il Noma e il Geranium si sono spartiti, rispettivamente, la prima e la seconda posizione nella classifica della World’s 50 Best, ma nella città danese c’è un locale, Brace (pronunciato all’inglese breis), in cui Nicola Fanetti ha da poco conquistato la Stella Verde Michelin (simbolo di cucina etica e sostenibile). Le radici dello chef ben salde nella sua Lombardia, in particolar modo sulle montagne attorno a Brescia. Lì l'infanzia e i primi ricordi legati alla cucina. L’abbondante e contadina cucina delle nonne.
"Durante le vacanze scolastiche passavo gran parte del tempo con le nonne – racconta – e mi ritrovavo in montagna, a contatto con la natura, e la cucina a cui mi sono abituato da giovanissimo è molto legata a questo territorio, tra prodotti vegetali e selvaggina". Ricordi vividi quelli di Nicola sui piatti dell'infanzia: "Minestroni e zuppe serviti in piatti di terracotta, polente preparate in paioli stra usati, ma vivido è un brodo a base di zampe di gallina con il quale poi nonna andava a cuocere ravioli, pasta fresca o il risone". Un punto di incontro con la cucina moderna la "politica" anti spreco delle risorse: "In quanto cucina contadina era già in un’ottica di preparazioni no waste, filosofia molto attuale".
Particolare il piatto che Nicola rievoca con maggior piacere, raccontandolo in modo quasi nostalgico: "Tra i tanti quello che ricordo con più gusto è una preparazione a base di ortiche, lumache e salame. Nonna realizzava un fondo di cipolla, tostava il salame stagionato a pezzi, poi aggiungeva le ortiche appena raccolte e le lumache. Faceva stufare il tutto e addizionava panna e latte, facendo cuocere lentamente. Ne usciva un impasto cremoso, ricco di sapore". Un altro punto di contatto tra il Nicola ragazzino e il Nicola chef: "A Copenaghen la cucina attinge molto dalla natura e, tra l’altro, qui ci sono vari allevamenti di lumache. Il legame è molto forte con il contesto in cui sono cresciuto". Nonostante i punti in comune, però, lo chef non ha mai rielaborato preparazioni della sua infanzia: "… perché non mi permetto di rivisitare i piatti delle mie nonne, sarebbe quasi un reato di lesa maestà (ride, ndr). Fare meglio di loro è difficile, quasi impossibile".
Tornando indietro anche con i sensi Nicola ha ben impresso un odore particolare: "L'affumicatura, il sentore di legno bruciato che si propagava per casa di nonna. Sono cresciuto così, tra gli odori e i sapori di selvatico, di funghi, di bacche, erbe: queste le sensazioni della mia infanzia". Oggi il Nicola chef cosa si porta dietro del Nicola bambino? "In Brace rimane viva e forte la connessione col mio passato, perché seguo i principi di cucina che ho assorbito durante la giovinezza. Non parlo di tecnica, ma dell'emozione più pura legata alla cucina. Le nonne mi hanno trasmesso il valore principale alla base di tutto: il dedicare tempo agli altri, cucinare per amore".
Conflitto generazionale: oggi le nonne come reagirebbero alla cucina contemporanea di cui Nicola si fa portavoce? "Sarebbe bello assistere alla loro reazione, purtroppo però sono venute a mancare prima che diventassi chef, e non hanno potuto assaggiare i miei piatti. Due che, però, credo potessero avvicinarsi ai loro gusti sono attualmente in menu: uno a base di funghi e uno con l'anatra selvatica. Penso, comunque sia, sarebbero orgogliose di ciò che sto facendo".
Rappresenta, se non un unicum, quantomeno qualcosa di molto raro Antonio Cicero. Nella sua Donnalucata, in provincia di Ragusa, lo chef ha aperto un ristorante, Il Consiglio di Sicilia, ristrutturando la casa dei suoi nonni. Una casa in cui, a differenza dei suoi colleghi, si è avvicinato alla cucina grazie a suo nonno: era lui, infatti, l'addetto al preparare da mangiare. Strano vero?
"Mia nonna non amava cucinare, e ha messo subito in chiaro questa cosa mio nonno Giovanni già prima del matrimonio – esordisce divertito Antonio – Quindi si è ritrovato tra i fornelli, ma per lui era un piacere. La mia esperienza con la cucina del passato, insomma, è legata a mio nonno e di lui che cucina ho dei bellissimi ricordi".
Ricordi prevalentemente legati ai fine settimana e ai periodi di festa: "Dai 7 ai 13 anni ho frequentato il collegio dalle suore e tornavo a casa solamente nei weekend, d'estate o a Natale, per questo le mie memorie sono legate essenzialmente a queste occasioni. Non dimenticherò mai le colazioni, che lui preparava salate e composte con quello che rimaneva della sera precedente. Oppure legate agli agrumi, con i quali magari realizzava delle insalate con tanto olio e pane. Questa particolarità un po' mi ha segnato, in quanto anche oggi prediligo il salato al dolce, anche di mattina".
Tra i piatti ricordati con maggior piacere? "Uno specialmente, anche in procinto di entrare in carta seppur adattato al mio stile. Si chiama li paddunedda: è una pasta in brodo con palline di carne macinata, formaggio ragusano, prezzemolo e aglio tritato. Me lo ricordo perché è un piatto i cui odori ogni volta riempivano casa ed era anche molto sostanzioso. Anche per onorare la memoria di nonno Giovanni a breve inserirò una versione rivisitata di questa ricetta, con i gamberetti al posto della carne macinata".
La preparazione preferita dallo chef però è probabilmente un'altra, legata alla grande semplicità ed essenzialità dei tempi andati: "Oltre a li paddunedda, piatto più formale e legato alla domenica, un altro capace di segnare la mia infanzia è stato il pane cunzato. Il tardo pomeriggio spesso andavamo insieme al forno a comprare pagnotte appena sfornate; le aprivamo si aggiungeva olio, formaggio, origano ed estratto di pomodoro. Il formaggio si scioglieva con il calore del pane e per me era una merenda incredibile. Anche questo ho intenzione di proporlo al ristorante, rivisitandolo, magari come antipasto".
Pur vivendo in un paese affacciato sul mare, le memorie sensoriali di Antonio sono strettamente legate agli odori e sapori della terra: "Mio nonno era anche agricoltore, nonché cacciatore, quindi mi sono riamaste particolarmente impresse sensazioni legate al campo. L'odore di cipolla fresca e formaggio, per esempio, è un abbinamento incredibile ma purtroppo mia moglie lo detesta: per me è una delle cose più buone che ci siano, spesso caratterizzava le nostre colazioni a casa".
Ma cosa si porta dentro lo chef del suo passato gastronomico con nonno Giovanni? "Sono sostanzialmente due gli insegnamenti ai quali sono più legato: uno è il rispetto per la materia prima, sempre di massima qualità, l'altro è la semplicità nelle preparazioni. Mio nonno era un tipo molto essenziale, anche perché parsimonioso e non amava spendere molto (ride, ndr), quindi non abbondava tra i fornelli. Io, per esempio, difficilmente realizzo un piatto con più di 3 ingredienti; l'importante che siano tutti ben riconoscibili".
Tra le preparazioni attualmente realizzate da Antonio al ristorante, una su tutte vorrebbe far assaggiare al suo "mentore": "Lui amava la pasta lunga, spesso la faceva in casa, quindi sono convinto che avrebbe apprezzato i miei spaghetti burro e alici, un abbinamento che è una sicurezza. Gli spaghetti poi sono realizzati con grano arso, capace di dare al piatto un sentore d'affumicatura che è una meraviglia. Sono certo che li avrebbe graditi".