Ogni anno ci sono gli spauracchi sul pomodoro concentrato cinese: il problema non è la qualità del prodotto ma il fatto che venga prodotto sfruttando bambini di 12 anni vessati in Cina perché facenti parte di una minoranza.
Ha fatto enorme scalpore la vicenda di Samar Singh, il bracciante morto a seguito di una mutilazione del braccio non curata a causa della vigliaccheria del proprio sfruttatore che lo ha abbandonato fuori casa con il braccio in una cassetta della frutta. È il caporalato, un fenomeno che non dobbiamo aver paura di chiamare schiavismo. Come ogni episodio legato alla schiavitù, anche questo parte da lontano: uno dei motivi del caporalato dilagante in Italia è infatti figlio delle assurde importazioni di concentrato di pomodoro dalla Cina. Nei giorni scorsi è stata sequestrata una nave a Salerno con 40 tonnellate di concentrato cinese. Un pomodoro che con ogni probabilità arriva dai campi della regione dello Xinjiang, una zona tristemente nota per lo sfruttamento del lavoro delle minoranze Uiguri.
In linea di massima non dovremmo temere il pomodoro estero, soprattutto quello cinese: sia perché la qualità è molto inferiore, sia perché è inevitabile. Un po' come succede col grano e con le nocciole, pur essendo dei grandi produttori abbiamo comunque bisogno di un aiuto estero. Il fabbisogno interno e una serie di legami commerciali internazionali ci obbligano a guardare fuori confine. Da agosto 2023 è obbligatorio, come scrive l'Osservatorio Alimentare, "per i derivati del pomodoro (pomodori pelati interi, pomodori non pelati interi, pomodori in pezzi, concentrato, passata di pomodoro) e per i sughi e salse preparate a base di pomodoro il cui peso netto totale è costituito per almeno il 50% dai derivati di pomodoro – trasformati e venduti in Italia – indicare in etichetta il Paese di coltivazione e quello di trasformazione del pomodoro. La norma potrà senz’altro porre un argine alle speculazioni sterili e strumentali che l’industria ha subito e continua a subire e garantirà al consumatore la massima trasparenza". Questo è stato un passaggio molto importante perché per anni le aziende hanno giocato su questo buco normativo.
Potremmo vendere il nostro pomodoro solo internamente, essendo l'Italia il terzo produttore al mondo, ma non conviene: il comparto fattura quasi 3,5 miliardi di euro e la metà viene proprio dall'export. Una cifra a cui non possiamo rinunciare. Le importazioni sono comunque minime e legate al concentrato. La maggior parte viene da Stati Uniti e Spagna, una minima parte da Cina e Portogallo. Le importazioni variano comunque in base alle oscillazioni dei tassi di cambio e delle produzioni/sovrapproduzioni interne. Negli ultimi due anni, ad esempio, i dati sulla Cina sono aumentati perché abbiamo avuto delle ondate di calore improvvise che hanno distrutto diverse piantagioni.
C'è dell'altro: la maggior parte del concentrato cinese viene in Italia "in transito", ovvero in regime di TPA, Traffico di Perfezionamento Attivo: è un'importazione temporanea per lavorare, trasformare o "riparare" il concentrato per essere poi venduto ad altri paesi extra comunitari, soprattutto in Africa Occidentale e Medio Oriente. Tutto il percorso è documentato ed è sottoposto a controlli da parte della Guardia di Finanza, delle Dogane e delle autorità sanitarie.
Secondo i dati Istat del 2023 in Italia sono arrivate 38.000 tonnellate di pomodoro dalla Cina ma di queste solo l'1% è arrivata sulle nostre tavole: tra l'altro questo 1% è un prodotto di qualità che viene ri-lavorato dall'industria conserviera e che non ha nulla da invidiare agli altri tipi di concentrato. Con l'applicazione della legge sull'etichettatura la questione è andata anche ad assottigliarsi, rendendola davvero marginale. Il problema è un altro, non riguarda la qualità: il pomodoro cinese non dovrebbe proprio arrivare in Italia perché così comincia il caporalato.
La luce sulla questione cinese l'ha accesa Stefano Liberti sull'Internazionale e prima ancora in un proprio libro-inchiesta già diversi anni fa, con testimonianze raccolte sul campo. L'autore racconta dello "Xinjiang, estremo ovest della Cina, a tremila chilometri da Pechino. Questa regione sconfinata, grande cinque volte e mezzo l’Italia, è tappezzata di terreni dove si coltiva uno degli ortaggi più consumati al mondo: il pomodoro. Una produzione destinata non al consumo interno, ma all’esportazione: i frutti delle piantine immesse nel terreno da questi braccianti a giornata di ogni età saranno trasbordati in una fabbrica, per essere lavorati e mandati in giro per il pianeta sotto forma di triplo concentrato. Dopo opportuna rilavorazione, finiranno nel ketchup della Heinz, nei barattoli che si vendono a due soldi nei mercati africani. O in concentrati e sughi pronti prodotti da marchi italiani".
Le persone che lavorano in questi campi vengono pagate 2 centesimi di euro per ogni metro quadro: i più veloci riescono a racimolare dieci euro al giorno. I braccianti, nella maggior parte dei casi, sono dei bambini perché, scrive Liberti, "sono particolarmente adatti a questo lavoro: grazie alle loro mani piccole sono più svelti". Il principale Paese importatore di questo tipo di pomodoro è proprio l'Italia.
Confezionando il concentrato cinese in prodotti italiani (per il mercato interno o extra comunitario) si danneggia comunque tutta la filiera perché la legislazione sul pomodoro ha valenza puramente nazionale.
In breve: pelati e passate vendute al supermercato devono essere fatti con pomodoro fresco, quindi necessariamente locale. Nel resto dell'Ue questa legislazione non vale quindi questo pomodoro può arrivare in Germania e Francia, rispettivamente primo e terzo importatore di concentrato italiano, senza troppi problemi.
Il caporalato cinese è un nostro problema più di quanto non si voglia ammettere: fino a 30 anni fa nello Xinjiang non c’era l’ombra di un pomodoro. Sono poi arrivate le industrie italiane a bonificare tutto per far fronte all’aumento dei costi e a una riduzione dei sussidi previsti dalla Politica agricola comune (Pac). In pochissimo tempo questa regione remota della Cina rurale è diventata la seconda regione produttrice al mondo di pomodoro da industria, subito dopo la California (che dal canto suo sfrutta i lavoratori messicani).
La Cina permette tutto questo perché la regione in cui ci sono i pomodori è complicata, per certi versi simile alla questione israelo-palestinese. Originariamente questa terra era degli uiguri, un pacifico popolo di lingua simil-turca e religione musulmana; poi sono arrivati i cinesi a colonizzare, prendendosi tutto e lasciando le briciole agli uiguri che stanno chiedendo da anni l'indipendenza. Parliamo di "colonizzazione" non a caso: Mao già negli anni '50 aveva inviato una marea di cinesi inquadrandoli in una sorta di esercito che lì chiamano bingtuan. Nel corso degli anni i bingtuan si sono trasformati: oggi non sono più militari ma è di fatto una corporazione, simile alle lobby. Diversi gruppi industriali francesi si sono affacciati al mercato e la stessa corporazione ha acquisito delle aziende in Francia nel corso del tempo.
I rapporti con l'Italia si sono intensificati solo negli anni '90, quando siamo andati noi da loro. Lo scambio commerciale, spiega Liberti, era semplice: "Gli italiani fornivano ai cinesi la tecnologia e gli impianti e questi li ripagavano in concentrato, che poi gli italiani ritrasformavano e vendevano sui loro mercati di riferimento".
Ma pian piano, i cinesi si sono affinati e hanno trasformato l’idea apparentemente geniale di delocalizzare la produzione in Cina in una specie di mostro di Frankenstein sfuggito di mano ai suoi creatori: perché invece di rifornire in modo esclusivo i loro ex mentori italiani, i produttori cinesi hanno cominciato a fargli concorrenza. E — conclude il giornalista dell'Internazionale — nell’impossibilità di competere con ditte sostenute dallo Stato che usano manodopera anche minorile a prezzi stracciati, questi hanno perso consistenti quote di mercato". Questo significa che l'industria del pomodoro italiano oggi importa concentrato dal suo principale concorrente internazionale. Non può contrastarlo perché si sviluppa su mercati poveri in cui i nostri prezzi non possono competere. Per questo le aziende importano un pomodoro raccolto da bambini di dodici anni pagati dieci euro al giorno (se sono bravi) e per lo stesso motivo si ritrovano ad "assumere" poveri braccianti costretti a lavorare nei campi per ore, sotto il sole, senza nessuna tutela.
"Il contrasto allo sfruttamento lavorativo e al caporalato rappresenta una delle priorità politiche del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il fenomeno, diffuso su tutto il territorio nazionale, è caratterizzato dalla violazione di disposizioni in materia di orario di lavoro, salari, contributi previdenziali, diritti alle ferie, salute e sicurezza sul luogo di lavoro e trattamento dignitoso", questo è il testo che si legge sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Ineccepibile anche perché le leggi in Italia contro il caporalato esistono e sono, in teoria, molto ben fatte. Il problema, come abbiamo già fatto presente, sono i controlli.
L'Italia ha messo in atto diverse misure per combattere il fenomeno del caporalato. Il principale strumento di contrasto è la legge 199/2016: introduce pene più severe per i datori di lavoro che utilizzano manodopera in modo illecito e stabilisce il reato di "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro". La legge prevede anche la confisca dei beni per i responsabili e misure di protezione per le vittime. Il problema è che per arrivare a questa legge serve una condanna e per arrivare a una condanna servono i controlli: i controlli mancano.