La Tuscia viterbese è un territorio ricco di storia, natura e cultura gastronomica. Sono tanti i piatti tipici di questo lembo di terra del Centro Italia, la cui tradizione culinaria attinge a piene mani dalla storia povera e contadina del luogo. Molti piatti sono stati reinterpretati in chiave moderna da chef del territorio, pur con il rispetto dovuto alle ricette delle origini. Un viaggio tra storia e gastronomia alla scoperta delle specialità del luogo.
La Tuscia, pur ricoprendo una piccola porzione del centro Italia, gode di una grande varietà geografica. È bagnata a ovest dalle acque del Mar Tirreno e si fa man mano sempre più brulla e frastagliata, quando ci si sposta verso est, tra alture, rilievi e borghi storici che si arrampicano su colli più o meno impervi, ora al confine con la Toscana ora con l'Umbria.
La storia di questo territorio affonda le radici tra cronache, testimonianze e leggende. Una di queste fa risalire la fondazione di Viterbo ai fuggitivi troiani che avevano abbandonato la loro città ormai assalita dagli Achei; un'altra parla di Ercole che, per dimostrare la propria forza alla gente del luogo, scagliò la sua clava a terra e, estraendola dal suolo, nel gigantesco cratere creatosi cominciò a sgorgare così tanta acqua da riempire tutto il bacino. Questa, secondo il mito, l'origine di uno dei due grandi laghi della zona, quello di Vico.
Tornando alla cronaca documentata dobbiamo considerare la stessa città di Viterbo come "capitale" della Tuscia. Un polo dalla storia antichissima, che fu anche sede di nove pontefici (qui residenti per 27 anni nella seconda metà del 1200) e per questo soprannominata Città dei Papi, arricchita dal più vasto centro storico medievale d'Europa.
Oggi si è soliti indicare come Tuscia l'intera provincia di Viterbo, ma storicamente i suoi confini si estendevano sino a penetrare nelle attuali Toscana e Umbria. Una terra racchiusa tra monti e laghi, solcata dalla via Francigena e dal Tevere, che viene raccontata anche da Dante Alighieri (nel canto XII e XIV dell'Inferno) e di cui in tutto il mondo si fa ambasciatrice, Civita di Bagnoregio: il borgo millenario (candidato a Patrimonio dell'Umanità Unesco) che sorge su un colle di argilla, tufo e lava modellato dalla continua erosione che domina sulla valle dei calanchi sottostante e collegato al resto del mondo da un ponte lungo circa 300 metri.
Un territorio così vasto, ricco di storia e tradizione, e dalla morfologia più diversificata non poteva che essere abbondante e variegato anche sotto l'aspetto gastronomico. Sono tante infatti i piatti tipici che popolano le tavole delle famiglie e dei ristoranti locali, con numerosi chef del posto che amano reinterpretare le ricette antiche viterbesi dando loro una personale rivisitazione.
Quella della Tuscia è una gastronomia che attinge a piene mani dalla tradizione contadina locale, a metà tra quella toscana e laziale ma con un'identità ben definita e dai sapori forti e decisi, che si basa su carni, legumi, formaggi e verdure autoctone. Una tradizione culinaria povera, che rimanda alla terra, alla campagna, al raccolto e ai duri lavori nei campi; senza però disdegnare prodotti di mare ma soprattutto di acqua dolce, con i grandi laghi vulcanici di Bolsena e Vico (ricchi di ulivi e vigne, tanti gli oli e i vini prodotti in zona) che colorano di azzurro l'entroterra viterbese.
Quella della Tuscia è una cucina che nasce dall'esigenza di nutrire e sfamare ora numerose famiglie ora nutriti gruppi di pastori e contadini, e che quindi prevede spesso l'utilizzo di materie prime semplici o poco pregiate, ma usate in grande abbondanza. Prodotti tipici locali che, però, da qualche anno a questa parte numerosi chef della zona hanno saputo valorizzare e reinterpretare secondo nuove ricette.
È sempre complicato far risalire l'origine di un piatto a una zona precisa e ben definita, e in questa terra non sarà raro imbattersi in ricette che cambiano di nome (e di qualche ingrediente) nel giro di pochi chilometri, viaggiando di borgo in borgo e spostandoci da un paese all'altro. Guai, inoltre, a mettere in discussione le radici del piatto stesso, potreste imbattervi in una querelle tra storia e gastronomia dalla quale difficilmente ne uscirete vincitori. La gente del posto, gelosa custode di ricette e antiche preparazioni, è particolarmente legata alle materie prime del proprio territorio.
Nel nostro ideale viaggio, andiamo alla scoperta di cosa mangiare a Viterbo e, più in generale, nella Tuscia viterbese.
In questo viaggio partiamo dal litorale viterbese, al confine con la Toscana, dove affonda le sue radici nello spazio e nel tempo la pignattaccia. Si tratta di una preparazione tipica dei mandriani della zona che, tra fine Ottocento e inizio Novecento, al mattino prima di condurre le mucche maremmane al pascolo gettavano in grossi calderoni (detti, per l'appunto, pignatte) i tagli meno pregiati delle carni di maiale a disposizione. Coda, muscolo, trippa, guance erano solo alcune delle parti che venivano riposte nella pignatta, bagnate poi con acqua e vino bianco e aromatizzate con erbe selvatiche. Il pentolone veniva quindi adagiato sulla cenere ancora calda e la sera, al ritorno dal pascolo, si ritrovavano una sorta di bollito pronto per essere consumato.
La pignattaccia è una pietanza ancora diffusa tra la popolazione di Viterbo, consumata in particolar modo durante la festa patronale di Santa Rosa (che ricorre il 3 settembre). Danilo Ciavattini, lo chef dell’unico ristorante Stella Michelin cittadino (e nato a pochi chilometri dal capoluogo laziale), ha reinterpretato questa ricetta della tradizione povera locale dandole un’impronta più contemporanea, creando dei cappelletti ripieni di quarto e quinto quarto. E presentando il tutto in un brodo contenuto all'interno di una tazza di ceramica, in una preparazione dalla grande delicatezza ed equilibrio.
"Sono arrivato alla ricetta definitiva dopo un'attenta pulizia del piatto – ci racconta lo chef – privandolo della sua grassezza e pesantezza originaria. Con il quinto quarto, usando per lo più lingua, guance e coda, ho creato il ripieno del cappelletto, conferendogli una carica aromatica fresca con l'aggiunta di buccia di limone e timo. A parte poi ho preparato un doppio consommé di manzo aromatizzato con scorza di liquirizia e tè verde affumicato".
Abbinamento vino: "Consiglio un vino rosso non troppo strutturato, dal tannino delicato, comunque leggero che possa accompagnarsi bene con la delicatezza del piatto".
Piatto simbolo di Viterbo, che nella sua preparazione locale si differenzia per qualche ingrediente dalla versione "maremmana", è l'acquacotta. Un'altra ricetta della tradizione povera e contadina locale, anche in questo caso datato oltre cento anni fa, quando i mandriani della bassa Toscana/alto Lazio gettavano in ampi calderoni pieni di acqua bollente materie prime autoctone come erbe di campo, patate, cipolle e spicchi d’aglio, il tutto condito a fine cottura con dell’olio extravergine di oliva prima dell’aggiunta del pane raffermo. Chi poteva, inoltre, aggiungeva qualche uovo rotto direttamente nel pentolone, per garantire un minimo apporto di proteine (e ulteriore sapore) a una zuppa di recupero che doveva sfamare grandi gruppi di pastori.
Borragine, maggiorana, cicoria o mentuccia, a seconda della stagionalità e della disponibilità di ognuna di esse, erano le erbe maggiormente in uso in questa preparazione. Abbondanza, quindi, ma anche sapore deciso per una ricetta che, dicono i locali, "il pane spreca e la trippa abbotta" (che recupera cioè il pane raffermo e riempie la pancia). Un piatto insomma della tradizione poverissima e popolare ma che, allo stesso tempo, negli ultimi anni è entrato nel menu stellato di Danilo Ciavattini che lo valorizza (e ne tramanda la storia) tra le sale del suo ristorante.
"Il piatto nasce dalla vocazione al territorio – confessa lo chef – con verdure ed erbe spontanee alla base della sua preparazione che sono espressione diretta del territorio stesso. In origine si trattava semplicemente di un brodo di verdure ed erbe aromatiche, al quale venivano aggiunti il pane e l’uovo. La mia missione è stata quella di rendere maggiormente presentabile, visivamente, e buono un piatto che concede ben pochi margini di manovra. Le verdure le ho lavorate cercando di mantenere il loro colore verde, il pane l’ho sostituito con un’acqua di pane bruciato e l’uovo lo aggiungo dopo averlo cotto a bassa temperatura al vapore".
Una ricetta che da Danilo recentemente è stata traslata anche in una nuova, innovativa, versione: quella di cocktail. "Proporrò al cliente, in apertura del pasto, un'estrazione di queste verdure ed erbe aromatiche che viene mixata a mo’ di cocktail con un vino bianco. Di base si sente la parte alcolica del vino, poi sono le erbe aromatiche a sprigionare i loro aromi, conferendo un sentore quasi di centrifuga di mela. I due elementi dell'acquacotta che non posso inserire nel drink sono l'uovo e il pane, me li giocherò come stuzzichini da accompagnare al cocktail".
Sul dove andare a mangiare a Viterbo, per un'esperienza in un ristorante gourmet all'insegna dei piatti del territorio, il Ciavattini Ristorante è quindi tra i must to try.
Abbinamento vino: "Un Grechetto bianco viterbese, secco, vellutato, fruttato con un retrogusto amarognolo che ben si combina con il sapore delle verdure di campo".
Lasciamo la città di Viterbo per spostarci a 500 metri d'altezza, nel piccolo borgo di Canepina, paesino di poco più di 3000 anime con un'identità gastronomica ben consolidata. Qui trova origine il tradizionale fieno, una tipologia di pasta (che risale al Medioevo) simile alle fettuccine, ma molto più sottile, dallo spessore di appena qualche millimetro che rappresenta il piatto simbolo della zona. Tradizione vuole che sia stata la prima espressione di pasta all'uovo del territorio viterbese. Sono farina e uova gli unici ingredienti del fieno canepinese. "Senza acqua – racconta Felice Arletti, cuoco e ristoratore della zona – con un uovo ogni 100 grammi di farina. Una delle sue peculiarità è l'artigianalità del taglio a mano, l'estrema finezza della pasta molto simile ai capelli d'angelo. Nasceva come piatto di condivisione, di banchetto, per le domeniche in famiglia, abbinato a ragù di maiale o pollo perché erano gli animali che venivano allevati maggiormente a livello domestico".
Il fieno, a cottura ultimata, una volta scolato veniva (e da alcuni tuttora viene) asciugato in panni e canovacci di canapa (pianta storicamente molto lavorata in zona, anche in cucina, e da qui il nome del paese) così da permettere poi un maggiore assorbimento del condimento. L'abbinamento più comune qui è quello con il ragù e pecorino locale. "Nella mia reinterpretazione – spiega Felice – lo accompagno a un ragù bianco di manzetta viterbese, finocchio selvatico e granella di nocciole locali, per mantenere stretto il legame con il territorio".
Un piatto che nel menu del ristorante di Felice Arletti non sfugge alle più svariate declinazioni. A Il Calice e la Stella viene proposto il fieno sia nelle sue varianti ora più tradizionali ora più moderne. "Ho creato dei supplì di fieno cacio e pepe, ma anche il fieno fritto che può essere mangiato a mo' di patatine fritte". La versione più curiosa e innovativa è però forse quella del dessert: "Ho voluto fare una cialda di fieno dolce cuocendo la pasta senza sale, asciugandola e mettendola in forno con lo zucchero di canna, per caramellizzarla. A cottura ultimata viene spezzata per creare una sorta di millefoglie, abbinata a creme chantilly fatte da noi ai diversi gusti: dalla menta alle zucchine, passando per il basilico".
Abbinamento vino: "Al primo piatto con ragu di manzetta ci abbino un bianco, un Grechetto viterbese. Con il dolce l’abbinamento perfetto è con il passito di Aleatico, ma anche la Canaiola di Marta perché è un vino secco portato però a tarda maturazione, e se servito fresco si avrà un retrogusto amarognolo che abbassa il tono dello zucchero della crema pasticciera, dando al palato più equilibrio".
Altra ricetta di recupero è senza dubbio la panzanella. Una preparazione la cui origine viene "contesa" fra la Maremma – bassa Toscana e la zona di Viterbo, con i contadini ancora artefici di un piatto che di generazione in generazione è giunto fino ai nostri giorni. Una vivanda semplice, tipicamente estiva, che non prevede nessun tipo di cottura e che nella sua versione più semplice è composta solo da pomodoro, pane raffermo (che si bagna con i liquidi presenti), basilico, olio extravergine di oliva e sale. Ciò non toglie comunque che ognuno possa aggiungere altri prodotti (come, per esempio, tonno, cipolla, cetrioli o mais, solo per citarne alcuni). Anche in questo caso Felice Arletti ha voluto interpretare a suo modo questa preparazione tipica delle campagne dell'alto Lazio, aggiungendo ingredienti come mousse di ricotta, zucchine all'aceto di mele, pomodoro saltato al miele e origano.
"Una proposta contemporanea che trae spunto dagli ingredienti originali: il pane tostato viene reso morbido da una mousse di ricotta al basilico che allo stesso tempo richiama il cacio che i contadini mettevano all’interno del piatto. Con l'aceto di mele metto a marinare le zucchine, il pomodoro viene scottato al forno con un po’ di zucchero, così che si caramellizzi. Io la propongo come antipasto, ma se fatta in grandi quantità secondo tradizione può sostituire tranquillamente il primo piatto".
Scendiamo dalle pendici del monte Cimino (che tra le varie materie prime offre anche una grande quantità di nocciole, castagne e funghi) per spostarci verso le sponde del non lontano lago di Bolsena. Si tratta di un bacino di origine vulcanica attorno al quale sorgono e vengono lavorati ettari di vigneti e di ulivi (celebre in zona il vino Est! Est!! Est!!! di Montefiascone, ma anche oli monovarietali di leccino e caninese) e dove nasce la tipica zuppa di pesce chiamata sbroscia.
Questa preparazione (chiamata anche acquacotta alla pescatora) trae origine dall'usanza dei pescatori locali di preparare in ampi calderoni tranci del pesce appena pescato nelle acque del lago. Tinche, lucci e anguille sono solamente alcuni protagonisti della ricetta, che prevede la loro cottura nella già citata pignatta assieme a sale, olio, cipolla, aglio, peperoncino, mentuccia e, secondo le varianti, anche basilico, prezzemolo, pomodoro e patate.
Il pesce "principe" di questa preparazione è però forse il coregone, specie non autoctona di questo bacino lacustre, ma che qui è ormai diventato di casa. Da oltre 100 anni, infatti, i pescatori riforniscono locali e ristoranti della zona così detta della "spigola di lago", al punto che oggi rappresenta circa il 50% del totale delle specie che qui vengono pescate. Ed è la base di gran parte dei piatti di pesce che vengono consumati sulle sponde del lago, specialmente a Montefiascone e Bolsena.
"È il pesce che per antonomasia veicola l’economia del posto – racconta Paola Dottarelli, responsabile dell'Associazione Lago Vivo di Bolsena – è il punto di forza di questo territorio". Una specie la cui pesca è limitata a precisi periodi dell'anno e che, per questo motivo, nel corso dei decenni è stata oggetto di varie tecniche di conservazione. "I vecchi pescatori usavano affumicarlo a fine estate per poterlo mantenere e mangiare poi in inverno. C'era anche chi ne marinava piccoli tranci, passandoli nell’aceto e nell'olio mettendolo poi in bagno in vasi molti grandi con spezie e odori come rosmarino, salvia o buccia di limone. Così facendo durante l’inverno, quando c’era il periodo di magra, in famiglia bastava che si cucinasse un piatto di pasta e metterci vicino un pezzo di pesce sgocciolato da questi vasi. Ne usciva un piatto completo e sostanzioso".
Si tratta di un prodotto ad alta digeribilità, con una carne bianca molto pulita e ricca di Omega 3 e Omega 9, al punto che molti pediatri della zona lo inseriscono nella dieta dei bambini per lo svezzamento. Oggi sono tante le declinazioni gastronomiche di questa materia prima, con il coregone che si presta alle più svariate ricette. Su tutte, probabilmente, la sbroscia e il timballo sono le preparazioni qui più apprezzate e diffuse. "Non c’è una ricetta specifica da poter consigliare – ci dice Paola – ma una delle più eseguite è il classico filetto riempito di verdure e infornato, che lascia una gradevole sensazione di pulito in bocca. Non avendo un retrogusto salato tipico del pesce di mare la carne assorbe il sapore del condimento, lasciandosi ben interpretare in qualsiasi ricetta. Diffusi in zona sono i timballi con i filetti di coregone, creando magari degli strati e facendolo in crosta di patate e aromatizzato poi con il finocchietto selvatico tipico delle nostre parti". L'accostamento con le patate e le verdure di stagione, ingredienti che sono alla base della zuppa di lago locale, è comunque quello che va per la maggiore.
Abbinamento vino: "Particolarmente indicato un Aleatico, vitigno autoctono che sorge su un terreno vulcanico a circa 450 di altezza. Al naso sentori di agrumi e fiori bianchi, al palato minerale, quasi sapido. Ben si sposa con piatti a base di pesce e carne bianca".
Sarebbe davvero riduttivo limitare le preparazioni, le materie prime e le ricette del luogo a quelle sopra citate. La Tuscia è un territorio dalla gastronomia ricchissima. Solo le pendici del monte Cimino sono la culla di noccioleti e castagneti (ma anche di una coltivazione di lamponi), le sponde del lago di Bolsena accolgono vigneti, uliveti, cantine e frantoi che producono vini e oli particolarmente apprezzati in zona, ma non solo. Non pochi i caseifici del territorio, con formaggi ora a più breve ora a più lunga stagionatura come il primo sale, le caciotte o il Pecorino Romano Dop, ognuno con peculiarità e identità ben precise, date dalla varietà dei climi data dalle differenti altitudini (e vegetazioni) alle quali pascolano mucche, pecore e capre.
Foto di copertina: Acquacotta – Ph. Mauro Baffo di Videosolution Viterbo