La primavera porta la natura a rifiorire e i romani a gustare uno degli abbinamenti più amati durante le scampagnate fuori porta del Primo Maggio. Le due cose sono legate tra loro da secoli, fin da quando i culti pagani festeggiavano la dea Flora.
La cucina made in Italy ci regala in abbondanza abbinamenti diventati iconici, per i motivi più disparati: prosciutto e melone, uova e asparagi, gorgonzola e noci. Uno dei più caratteristici, specialmente in quel di Roma (e del Lazio in genere), è composto da fave e pecorino, da gustare rigorosamente insieme ad amici e parenti nella scampagnata del Primo Maggio.
Un’unione che gioca su sapori, colori e consistenze stuzzicanti, certo, ma che porta con sé oltre al piacere per il palato un momento di convivialità che ha radici antiche. Questa combinazione tra dolcezza e sapidità, infatti, è tipicamente consumata durante la primavera, quando le fave fresche sono di stagione: il Primo Maggio segna il periodo per eccellenza delle gite fuori porta, dove il verdissimo legume e il tipico formaggio di pecora vengono mangiati in chiave merenda en plein air, meglio ancora se accompagnati da pane casereccio, salumi e vino dei Castelli Romani, una delle destinazioni privilegiate dagli abitanti di Roma per una fuga dalla città. Un pasto frugale, pratico, perfetto per approfittare delle giornate soleggiate e delle temperature miti. E se alle spalle ci sono anche millenni di storia, la soddisfazione aumenta.
Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare indietro nei secoli, all’epoca degli antichi Romani, con le fave che ottengono un loro posto al sole dopo essere state demonizzate per lungo tempo dai Greci. Sappiamo che erano invise a Pitagora, per esempio, il celebre matematico e filosofo vissuto nel VI secolo a.C. che nella sua scuola le proibiva si narra perché probabilmente afflitto da favismo, o perché aveva visto le conseguenze di questa anomalia genetica che può portare a forme gravi di anemia, particolarmente pericolosa per i bambini.
In più le fave venivano associate all’Ade, al mondo dei defunti (cosa che si ripresenta nel Cristianesimo, basta pensare ai biscotti chiamati fave dei morti) e quindi circondate da credenze negative. Nei culti pagani della Roma Antica, invece, le fave diventano un simbolo della primavera, considerate portatrici di rinascita e di fertilità (addirittura afrodisiache), legate alle festività dedicate alla dea Flora (Floralia), protettrice dei fiori e della fioritura, che andavano in scena tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio. Si trattava di un alimento molto diffuso, proprio come i formaggi a base di latte ovino: entrambi erano quindi facilmente reperibili, trasportabili, nonché nutrienti ed economici, tanto da conquistare le classi medio-basse. Nel corso del tempo l’usanza si è consolidata, fino a diventare un appuntamento fisso: d’altronde stiamo parlando di cibi che insieme danno vita a ricette con una forte connotazione territoriale e temporale, dall’insalata alla pasta.