Un piatto classico della gastronomia partenopea dalle origini umili considerato un po' stravagante per l'uso dell'acqua di mare al posto del sale: l'ingrediente jolly ora è praticamente scomparso, ma la ricetta è rimasta.
La cucina regionale italiana è famosa per la sua semplicità: riuscire a creare dei piatti gustosi avendo a disposizione poche materie prime, il più delle volte economiche e facilmente reperibili. Rientra a pieno titolo in questo ritratto la cottura all'acqua pazza, una tecnica che permette di mantenere tutto il sapore naturale del pesce, arricchendolo con un sughetto leggero realizzato con una manciata di ingredienti: acqua, olio extravergine d'oliva e pomodorini sono tutto ciò che serve per prepararlo. Non è un caso che l’acqua pazza sia stata messa a punto dai pescatori del Sud Italia e che, con un nome così eccentrico, abbia toccato il cuore di Totò, che lo ordinava spesso e (molto) volentieri. Scopriamo più nel dettaglio da dove viene e come si fa.
Siamo di fronte a una cottura che ha radici profonde nella cultura marinara partenopea, con una paternità divisa tra i pescatori dell’Isola di Ponza e quelli del Golfo di Napoli. Come per tanti piatti della tradizione made in Italy, non vi sono origini certe, ma le ipotesi messe in campo si rivelano affascinanti, custodendo sempre qualche fondo di verità. Per esempio, è appurato che i pescatori di queste zone preparassero il pesce appena pescato senza fronzoli, con quei pochi ingredienti che c’erano a disposizione sulla barca e che venivano portati a bordo perché duraturi, tipo l’olio d’oliva, l’aglio, il pomodorino del piennolo del Vesuvio (famoso per essere lungamente conservabile) e qualche erba aromatica, tipo il prezzemolo. Una disponibilità limitata che obbligava a farsi bastare quello che c’era, combinando così questi elementi e usando l’acqua di mare per cucinare, che di certo non mancava.
Un’altra teoria popolare, da cui sembra derivare il nome, è quella che il sale avesse prezzi alle stelle dopo essere diventato monopolio di stato nel 1862, in seguito l’Unità d’Italia: il costo elevato, costrinse i pescatori a sostituirlo con acqua di mare, a volte unita a del vino bianco, per dare il giusto tocco di sapidità. Una scelta stravagante, un po’ pazza, ma funzionale, che ebbe grande seguito. Nessun dubbio, quindi, sull’umiltà dei natali: il successo arriva parecchi anni dopo, in parte grazie alla sua diffusione nell’isola di Capri per merito del principe Antonio De Curtis che gustava il pesce all’acqua pazza nei suoi numerosi soggiorni capresi. I ristoratori dell’isola lo misero nel menu, facendolo conoscere ai clienti del jet set.
La cottura all'acqua pazza viene definita come una ricetta semplice: da questo punto di vista nulla da obiettare, ma per la sua riuscita gli ingredienti devono essere di qualità, richiedendo una certa attenzione. L'elemento principale del piatto è il pesce fresco: si predilige quello bianco, di taglia medio-grande, dalle carni morbide e delicate, come l’orata, la spigola, la pezzogna, lo scorfano, la gallinella. Via libera anche a ricciola e dentice: il gusto è elegante, naturalmente piacevole, senza un sovraccarico di condimenti. Poi ci sono i pomodorini, con polpa dolce e soda: le varietà vanno da quelli del piennolo ai datterini e ciliegini, fino ai San Marzano, da scegliere maturi. Infine servono un buon olio extravergine d’oliva, uno spicchio d’aglio e del prezzemolo fresco. La preparazione classica prevede che si faccia insaporire in una casseruola uno spicchio d’aglio in un po’ d’olio, poi si aggiungono i pomodori tagliati a metà, il pesce intero e l’acqua. La cottura deve essere lenta, con la carne che risulta tenera, ma non bollita. Si può aggiungere del vino bianco, per sfumare e servire con una spolverata di prezzemolo. Quello che si ottiene è un pesce sano, gustoso, che sa di Mediterraneo: magari della follia iniziale si sono un po’ perse le tracce, ma replicarlo per un’occasione speciale avrebbe ugualmente l’approvazione di Totò.