Il miele non ha una data di scadenza: per legge è obbligatorio indicare sul vasetto un termine minimo di conservazione oltre al quale perde tutte le sue proprietà organolettiche, ma non diventa nocivo.
Il miele non scade mai? Questa volta non siamo di fronte all’ennesimo falso mito del mondo del cibo, ma è così: il miele non ha una data di scadenza vera e propria, ma quella che leggiamo sull’etichetta è un’indicazione che suggerisce al consumatore fino a quando il prodotto è commestibile garantendone pienamente le proprietà organolettiche nel momento in cui viene conservato in modo adeguato. Grazie alla sua composizione chimica, fatta prevalentemente di zuccheri (75%-80%) e di acqua (per legge il massimo è il 20%), infatti, è difficile che nel miele si formino microrganismi che possano farlo deperire e renderlo pericoloso per la salute. Il miele subisce comunque un processo di invecchiamento per cui, dopo un certo tempo dall’invasettamento, perde le sue peculiarità, sia in termini di sapore e odore sia di vitamine, enzimi e sali minerali. Può capitare che il miele fermenti: è praticamente l’unico caso in cui va a male ed è meglio non mangiarlo, nonostante non sia comunque nocivo o tossico.
Quello che nel miele in etichetta deve essere indicato secondo la normativa vigente (Decreto Legislativo n.179 del 21 maggio 2004) è il termine minimo di conservazione (abbreviato in TMC) che viene genericamente espresso con la dicitura “da consumarsi preferibilmente entro…”. L’arco temporale va circa dai 18 mesi (si troveranno scritti il mese e l’anno di produzione) ai 2 anni (in questo caso solo l’anno). Il miele è quindi un prodotto che si mantiene a lungo, ma solo se preservato in condizioni favorevoli, che spesso vengono anch’esse specificate sulla confezione: per esempio “conservare in luogo fresco e asciutto, al riparo dalla luce”. Il calore, l’umidità e la luce diretta, infatti, sono elementi che possono portare il miele ad alterare le sue proprietà organolettiche, favorendone il processo di deperimento: oltretutto, siamo di fronte a un prodotto che assorbe gli odori ed è per questo che andrebbe sempre mantenuto nel suo vasetto ben chiuso.
Per valutare la freschezza e la conservabilità di un miele, fattori che ne determinano anche la qualità, ci sono delle verifiche che si svolgono all’interno di laboratori e che misurano in particolare due valori, come spiegato nel disciplinare redatto da Conapi (Consorzio Nazionale Apicoltori): il primo è l’indice diastasico, quindi la concentrazione maggiore o minore di diastasi, un enzima che essendo termosensibile può far capire se il prodotto è stato sottoposto a trattamenti termici; il secondo è il valore di HMF, ovvero l’idrossimetilfurfurale, una sostanza che si forma nel miele con l’invecchiamento e che è rivelatrice della degradazione chimica che il prodotto subisce nelle fasi di lavorazione e mantenimento.
Il miele è un prodotto che può presentare quelli che in gergo tecnico vengono chiamati difetti, delle imperfezioni che impattano alcune solo sull'estetica e altre che, invece, implicano alterazioni del prodotto. Per esempio, quando nel vasetto compaiono delle striature bianche si è verificato il fenomeno della marezzatura, con parti di glucosio che si sono disidratate perché venute a contatto con l’aria. Queste macchie di retrazione, così come sono definite, riguardano puramente l’aspetto del miele, che sarà però integro nelle sue proprietà e commestibile al 100%.
Al contrario, invece, quando avviene la fermentazione, il prodotto è andato a male: i lieviti presenti naturalmente hanno avuto modo di svilupparsi, formando sulla superficie del miele una schiuma e conferendo un odore acetoso. Qual è il motivo? La presenza di troppa umidità oppure la conservazione a temperature superiori ai 18 °C. Conapi cita alcune varietà che sono più predisposte alla fermentazione: erica, tarassaco, colza, edera, corbezzolo, acacia e castagno.
Una condizione estetica a cui prestare attenzione è la separazione di fasi, ovvero se ci si accorge che nel vasetto c’è una netta divisione in due strati, con la parte cristallizzata in basso e ai lati e la parte liquida in alto. Come sottolinea Unaapi (Unione Nazionale Associazioni Apicoltori Italiani), ciò può dipendere dall’esposizione a temperature maggiori rispetto a quelle raccomandate, oppure essere sintomo di una possibile futura fermentazione, in quanto vi è un alto contenuto di acqua. Il consiglio, quindi, è quello di non acquistarlo e di evitare di consumarlo.