Il Parmigiano Reggiano fa parte della nostra storia da prima che fosse scoperta l'America: dal Medioevo la sua preparazione è rimasta pressoché invariata, così perfetta nella creazione di un gusto unico e inimitabile. Uno dei pochi prodotti occidentali che hanno, naturalmente, il sapore umami tanto ricercato dai giapponesi. Un vero diamante della nostra gastronomia: ecco la sua storia.
"I miei muscoli sono fatti di Parmigiano Reggiano" dice Massimo Bottura che a questo formaggio ha dedicato uno dei suoi piatti più famosi e che fa parte della storia stessa del cacio emiliano. L'origine di questo prodotto risale al Medioevo e dobbiamo essere grati ai monaci cistercensi e benedettini se oggi possiamo godere di una delizia amata (e imitata) in tutto il mondo.
Il parmigiano nasce per la stessa ragione di ogni cibo della tradizione italiana: per necessità. I monaci avevano bisogno di un formaggio in grado di durare nel tempo e così, grazie al sale proveniente dalle saline di Salsomaggiore e al latte delle vacche allevate nelle grange, riuscirono ad arrivare all'eccellenza che tutti noi conosciamo. Le prime aziende agricole produttrici erano infatti racchiuse nei monasteri, qui i primi produttori ottennero grandi forme di un formaggio a pasta asciutta, perfette per essere conservate a lungo. Ma come ha fatto questo formaggio a uscire dal monastero e arrivare sulle tavole più prestigiose del pianeta? Grazie al commercio dei monasteri e, come recita un famoso striscione da stadio, "la storia ha voluto una data": un atto notarile ritrovato a Genova testimonia che nel 1254 un "caseus parmensis", ovvero un "formaggio di Parma" fu stato acquistato in città. La storia del parmigiano nasce ufficialmente nel 1254, ma le sue origini potrebbero essere decisamente molto più antiche.
Oggi il parmigiano può essere prodotto solo nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma, Bologna e Mantova; con le sue 3,8 milioni di forme è il terzo formaggio italiano per produzione, dietro solo al Grana Padano e al Gorgonzola. Sebbene la sua nascita commerciale abbia una data precisa e la sua zona di produzione sia così circoscritta, non abbiamo ancora una data certa del suo "concepimento".
Collocare l'origine di un prodotto così iconico è sempre difficile anche perché al giorno d'oggi è importante sapere da dove venga e come venga fatto un prodotto ma fino all'inizio del 2000 questo "problema" non era così sentito. Immaginate dunque come poteva esserlo 1000, se non 1500, anni fa.
Il parmigiano "moderno" è infatti nato con i monaci ed è quasi invariato da sei secoli ma la sua storia, secondo le fonti bibliografiche, dovrebbe essere molto più antica; Plinio il Vecchio, infatti, nel suo "Naturalis Historia" cita già un formaggio a pasta dura "dalla grandezza cospicua" molto simile al parmigiano e, qualche anno dopo, lo farà anche il poeta Marziale nei suoi Epigrammi: "Il formaggio segnato col marchio dell’Etrusca Luni fornirà mille pranzi per i tuoi piccoli schiavi". L'Etrusca Luni era l'effige dell'attuale città di Luni, in Liguria, un'antichissima colonia romana.
Altra notizia certa è che i formaggi a pasta dura esistevano già nel 1100: il Granone Lodigiano, il formaggio da cui si ricava la raspadura, è nato nel 1135, nell'abbazia di Chiaravalle, pochi chilometri a sud di Milano. Purtroppo il buco di 1000 anni tra Plinio e Chiaravalle non sarà mai colmato ma è presumibile che gli scambi tra le diverse zone dell'Impero Romano abbiano contribuito alla diffusione di questo formaggio nella zona emiliano-romagnola. Stando ai quaderni dell'epoca infatti, i monaci avrebbero fatto passi da gigante in brevissimo tempo nell'affinamento del Parmigiano Reggiano diventando degli abilissimi agricoltori: bonificarono le paludi e ruppero il terreno in zolle adatte alla coltivazione, così da far nascere quei prati tuttora indispensabili per nutrire le mucche. Ancora oggi sono visibili nelle campagne i "caselli", dei piccoli edifici a pianta quadrata o poligonale che servivano alla lavorazione del latte. Già nel 1200 i monaci, dopo aver fatto questo lavoro di "preparazione", ebbero a disposizione un notevole numero di bestiame per permettere loro di produrre Parmigiano Reggiano in quantità notevoli. Cominciò così il commercio in Italia e in Europa, con gli scambi che portarono questo formaggio in tutto il mondo allora conosciuto e che contribuirono a portare in Italia la cultura della birra, dell'acquavite, degli amari, degli spumanti e di altri formaggi.
I monaci emiliani, grazie al parmigiano, diventarono dei veri e propri agenti di scambio, dei grandi imprenditori (pur continuando a fare una vita da asceti, visto che il commercio si basava sul baratto). I passi in avanti nel miglioramento dei prodotti lo si deve agli esperimenti e alle invenzioni fatti nelle immense cucine dei monasteri. Scoprirono già nel 1200 che l'impiego della scrematura parziale del latte e di un conseguente doppio riscaldamento alla giusta temperatura, riusciva a produrre una pasta con un bassissimo residuo acquoso, una condizione necessaria per produrre un formaggio ad alta conservabilità (requisito cardine del parmigiano) e che fosse al contempo gustoso. Pensate che da allora ad oggi la produzione di Parmigiano Reggiano non è cambiata poi così tanto, per un prodotto che trova l'eccellenza grazie al rigoroso e sacro rispetto della tradizione in cui è nato.
Il parmigiano diventa dunque uno degli alimenti più ambiti del Medioevo grazie al suo sapore unico e inimitabile, probabilmente una delle cose più buone mai comparse sulle tavole dell'epoca. Un esempio dell'appetibilità di questo formaggio lo vediamo in uno dei libri più celebri della storia: il Decameron di Giovanni Boccaccio.
Partiamo da una premessa: le opere di Giovanni Boccaccio sono piene di riferimenti enogastronomici. Ovviamente questo è un ragionamento per deduzione ma possiamo dire che l'autore toscano fosse un vero appassionato del buon cibo. Il Decameron in particolare celebra, con insistenza, i fasti gastronomici del 1300, un periodo noto per lo più per la peste, la fame e le carestie in tutta Europa. Proprio per questo motivo Boccaccio nella terza novella dell'ottavo giorno crea il "Paese della Cuccagna", anche noto come "Paese di Bengodi":
"…si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua".
In questo estratto leggiamo di "una montagna di parmigiano grattugiato" su cui venivano fatti rotolare "maccheroni e raviuoli", dando addirittura un’indicazione dell’uso che se ne poteva fare in cucina. Purtroppo però questa novella ha poco a che fare col buon cibo: sebbene ci siano salsicce e vini, questa non vuole essere una celebrazione della gastronomia. L'oggetto della novella è infatti lo sberleffo, non il cibo. Il protagonista, Calandrino, viene beffato da tre amici che lo spingono a credere a un'inesistente pietra dell'invisibilità. Per raggiungerla avrebbe dovuto attraversare questo posto immaginario fatto di cibo e divertimento. Nel Paese della Cuccagna, il cibo viene addirittura lanciato nelle bocche dei passanti, uno scenario inverosimile che Boccaccio usa per accentuare la caratteristica credulità del suo protagonista.
L'uso che l'autore di Certaldo fa del cibo ci porta anche ad un altro punto: nel Trecento e nel Quattrocento c'è una vera e propria rinascita gastronomica alimentata dal ritrovamento di antichi testi di cucina risalenti all'Impero Romano. Lo sviluppo del commercio, l'approdo delle spezie in Europa, le contaminazioni con la cucina asiatica e araba, la successiva scoperta dell'America, portano il Vecchio Continente alla prima vera "bolla gastronomica" della sua storia. C'è comunque più attenzione alla quantità che alla qualità ma per la prima volta dai tempi dei Romani il cibo viene visto anche come medicinale.
La prima opera in cui compare graficamente il parmigiano è del XV secolo, e la troviamo nei "Tacuina sanitatis in medicina" attualmente conservati a Vienna. Qui il formaggio viene descritto dal punto di vista organolettico: si elencano, sotto forma di brevi precetti, tutte le proprietà mediche del parmigiano, riportando gli effetti sul corpo umano.
È dal Medioevo che il Parmigiano Reggiano si fa sempre nello stesso modo: gli ingredienti sono gli stessi, ovvero latte, caglio e sale, non ci sono additivi e la lavorazione deve essere fatta a mano. Anche il luogo di provenienza è lo stesso dell'epoca e deve essere stagionato almeno 12 mesi. Se manca anche solo una di queste caratteristiche, il Parmigiano Reggiano non può definirsi tale.
Il fatto che arrivi tutto dalla stessa zona non deve trarci in inganno però: non tutte le forme hanno lo stesso sapore. Ci sono profumi, consistenze, gusti simili che fanno parte di un'unica Dop ma ciascun produttore ha le proprie peculiarità, con caratteristiche che sono influenzate dai foraggi, dal metodo di stagionatura e dalle razze bovine, che possono essere esclusivamente frisone italiane, vacche brune, bianche modenesi o rosse reggiane.
Il metodo di lavorazione è inviolato dal Medioevo eppure c'è stato un momento in cui la sostenibilità di questo prodotto è stata messa a dura prova: il 20 maggio 2012 un terremoto con epicentro nei pressi di Modena distrugge centinaia di forme di parmigiano. Il presidente del consorzio chiede aiuto a Massimo Bottura, all'epoca terzo chef migliore al mondo. Il cuoco 3 Stelle Michelin a "Chef's Table" racconta proprio questo episodio: "Poteva significare il dimezzamento della produzione di Parmigiano Reggiano. Se non si fosse intervenuto in fretta, avremmo perso tutto".
Il titolare dell'Osteria Francescana crea dunque un "Risotto cacio e pepe", organizza una cena con i cuochi più importanti del mondo e dona loro la ricetta così da aiutare il consorzio a vendere le forme danneggiate dal terremoto. Si stima che circa 40 mila persone abbiano cucinato questo risotto nell'immediato "post cena" all'Osteria: "Tutte e 360 forme vennero vendute. Nessuno perse il lavoro, nessun produttore chiuse i battenti. Quella ricetta è diventata un gesto solidale" chiosa Massimo Bottura nell'introduzione della prima puntata della fortunata serie Netflix.
All'interno di questo episodio c'è anche un altro piatto che tanto ha fatto bene alla nomea del Parmigiano Reggiano nel mondo: le "Cinque stagionature del parmigiano, in diverse consistenze e temperature". In realtà questo piatto vede la luce nel 1993, un periodo in cui era impensabile prendere una cosa così casalinga e allo stesso tempo così perfetta nel suo assoluto sapore umami e trasformarla in un piatto d'alta cucina. La prima volta che Massimo Bottura presenta un'idea di "parmigiano in cucina" è quindi risalente a 30 anni fa e all'inizio le stagionature e le consistenze erano solamente tre. Si tratta di un piatto pensato ancora prima dell'apertura dell'Osteria Francescana.
Da quel lontano 1993 di strada ne ha fatta, ha continuato a studiare e a perfezionarsi: le "stagionature" diventano prima quattro, poi cinque nel 2013. Dopo l'evento sismico porta in carta il suo definitivo "Cinque stagionature del parmigiano", un piatto entrato nella leggenda. In realtà, qualche anno fa, le stagionature e le consistenze sono diventate addirittura sei ma l'esperimento (con il parmigiano nebulizzato) è durato pochissimo tempo perché non ha convinto né lo chef, né la critica né i clienti stessi. Oggi grazie a Bottura questo formaggio si trova anche nelle cucine più impensabili, in ogni angolo del globo, ma resta quel pezzo d'Italia che fa parte della nostra stessa identità, che è sinonimo di "casa" e di buon gusto. Uno scoglio ruvido e perfetto di sapore puro e autentico.