Il ragù napoletano ha una storia secolare ma nella forma attuale arriva solo nel Dopoguerra dopo tantissimi perfezionamenti fatti nel corso del tempo. Il tempo è la parola chiave: l'ingrediente segreto di questo sugo che ha un rapporto con la propria città più profondo di quanto si possa immaginare.
Il ragù napoletano non è solo un piatto: è un rituale, una tradizione tramandata di generazione in generazione che simboleggia la convivialità e la passione per la buona tavola. Questo sugo corposo e aromatico è ben diverso dal suo "cugino" bolognese e rappresenta una delle massime espressioni della cucina partenopea. Le prime tracce del ragù risalgono al Medioevo, quando in Provenza si preparava il "daube de boeuf", uno stufato di carne simile al nostro ragù. Con l'arrivo degli Angioini a Napoli, questa tradizione culinaria si diffuse nel Regno, subendo nel tempo l'influenza di diverse culture.
L'introduzione del pomodoro, avvenuta nel XVI secolo, segnò una svolta decisiva nella storia del ragù. Questo frutto esotico, inizialmente considerato ornamentale se non tossico, divenne ben presto un ingrediente fondamentale, conferendo al piatto il suo caratteristico colore rosso e il suo sapore inconfondibile. Possiamo dire che il ragù napoletano nasce nel 1790 grazie a Francesco Leonardi, il più grande cuoco del ‘700, ma la ricetta ha avuto degli sviluppi precedenti e ne avrà di successivi. Oggi la ricetta del ragù napoletano prevede una lunga preparazione a fuoco lento, abbondanza di carne e pomodoro, ma porta con sé tutta una sequenza di riti che rende questa pietanza molto più di un piatto comune.
A Napoli, nel cuore del Trecento, la città era attraversata da un’atmosfera di discordia e rancore. Un gruppo di uomini buoni, la Compagnia dei Bianchi, percorreva le strade invocando “misericordia e pace”, cercando di riconciliare i cuori infranti. Tra i più ostili c’era un potente signore che abitava a Palazzo d'Angiò, in via Tribunali, il più antico palazzo della città ancora esistente. Quest'uomo era l'unico obiettore a una pace duratura: non accettò nemmeno la miracolosa invocazione del figlio neonato che sfilò le manine dalle fasce e incrociandole gridò tre volte "Misericordia e pace".
Il nobile era accecato da rabbia, rancore e sete di vendetta così sua moglie, che questa pace la voleva, gli preparò un delizioso piatto per intenerirlo. La Divina Provvidenza non voleva essere magnanima quanto la donna e trasformò il piatto in una sorta di zuppa rossa, piena di sangue. L'uomo, commosso e spaventato dal prodigio, non solo fece pace coi suoi nemici ma vestì il bianco saio della Compagnia. Per ringraziare il marito, la moglie preparò nuovamente la pietanza che per magia si trasformò nuovamente di rosso: a differenza della prima volta però non emanava alcun fetore, anzi, aveva uno strano e invitante profumo e chiamò questo piatto "Raù", come il nome del suo bambino.
Ovviamente è solo una leggenda: senza scomodare miracoli e sanguinamenti, possiamo innanzitutto parlare di ragioni storiche, dato che la pietanza deriva dal francese ragoût, che indica un tipo di cottura di carne e verdure, simile allo spezzatino e poi perché il pomodoro non arrivò in Europa fino al XVI secolo e solo nel 1700 cominciammo a usarlo in cucina.
Il ragù oggi è indissolubilmente legato alla tradizione napoletana e alla pasta – ziti, soprattutto – ma la sua storia è molto lunga e arzigogolata. È un altro, l'ennesimo, esempio di come il concetto della tradizione in cucina sia davvero molto particolare. Il ragù napoletano per come lo conosciamo oggi si sviluppa solo nella seconda metà del Novecento ma la sua storia è vecchia di secoli.
Tanto per cominciare: i "maccheroni alla napolitana", prima definizione in una ricetta del ragù data da Francesco Leonardi ne L'Apicio Moderno del 1790 derivano da un piatto dolce ed erano già una "rivisitazione". Secondo una delle prime descrizioni documentate da Cristoforo Messisbugo riportata dal Gambero Rosso, il piatto sarebbe stato molto diverso da quello che conosciamo oggi. I maccheroni erano spesse tagliatelle fatte con farina, mollica di pane e zucchero, impastate con uova e acqua di rose. Questa pasta, dalla consistenza morbida e dal gusto dolce, veniva cotta in brodo e servita con zucchero e cannella. Per chi poteva permetterselo, i condimenti variavano con l'aggiunta di burro e formaggio grattugiato. I piatti di pasta più elaborati, che includevano carne, erano invece cotti al forno, una tradizione che risaliva al Medioevo e che aveva portato alla nascita delle lasagne.
Nel Cinquecento e Seicento, la pasta asciutta non era diffusa come lo è oggi; si preferivano le paste in brodo o al forno, da cui derivarono i timballi e i pasticci del Settecento. Fu Vincenzo Corrado, nel suo celebre libro Il cuoco galante del 1773, a menzionare per la prima volta il termine "ragù". Tuttavia, questo non era un condimento per la pasta, ma un piatto simile a uno spezzatino o a un brasato come da definizione francese (ancora oggi è così). Corrado descriveva vari tipi di ragù: di vitello, di animelle, di gamberi e persino di uova, tutti preparati con una prima rosolatura in grasso e una successiva cottura in brodo o vino, con ortaggi e aromi. Talvolta si aggiungeva del succo di limone o dell'aceto per aumentare l'acidità. Questi ragù erano usati per arricchire altre pietanze o come ripieno, ma non venivano serviti con la pasta. I primi ragù che avevano una ricetta anche solo vagamente paragonabile a quella odierna erano quindi un piatto separato dai maccheroni e da tutte le paste asciutte che conoscevamo all'epoca.
Un'importante svolta si ebbe con Francesco Leonardi e il suo lavoro L’Apicio moderno del 1790. In esso, Leonardi menzionava nuovamente i "Maccaroni alla Napolitana" conditi con un sugo simile a un embrionale ragù moderno: maccheroni lessati, conditi con parmigiano, pepe e sugo di vitello o manzo, e serviti dopo essere stati lasciati a riposare su cenere calda. Tra le edizioni successive del libro, Leonardi aggiunse una nota cruciale: la possibilità di inserire il sugo di pomodoro nella carne stufata. La definitiva affermazione del ragù come condimento per la pasta apparve nel ricettario La cucina casereccia, stampato a Napoli da un anonimo autore identificato solo con le iniziali M.F. Ci teniamo a far notare che ancora oggi il ragù napoletano prevede una prima rosolatura della carne e una successiva aggiunta di sugo di pomodoro proprio come descritto da Leonardi. In questa opera, i maccheroni erano conditi con formaggio e un brodo di ragù cotto con pomodori. Il ragù descritto comprendeva un pezzo di manzo arricchito con prosciutto e chiodi di garofano, rosolato con cipolla, lardo ed erbe, e poi cotto nel brodo con aggiunta di pomodoro. La carne veniva servita a parte, mentre il brodo ricco fungeva da condimento per la pasta.
Tutto questo ci porta a Ippolito Cavalcanti che nel suo Cucina teorico-pratica del 1837, riprese questa ricetta, inserendo anche per la prima volta la menzione degli spaghetti al pomodoro. Con il passare del tempo, il pomodoro divenne un ingrediente fisso della preparazione, e durante il Novecento si aggiunse anche la carne di maiale, arricchendo ulteriormente la ricetta. Il ragù napoletano nasce in maniera embrionale nel Medioevo come derivazione di una ricetta francese ma ci mette ben 500 anni per arrivare alla ricetta attuale che tutti noi amiamo enormemente.
Il ragù napoletano è più di un semplice condimento: è un rito che rappresenta pazienza, tradizione e il tempo che scorre. Come descritto da Luciano De Crescenzo, prepararlo è "un incontro con i pensieri, un appuntamento con la fantasia". Per seguire la tradizione, la preparazione richiede tre giorni, a partire dal venerdì fino alla domenica, e necessita di cura costante per evitare che si attacchi alla pentola, riflettendo così la sua "personalità nevrotica". Una ricetta che viene umanizzata dallo scrittore partenopeo.
Il valore simbolico del ragù ha ispirato molti artisti napoletani, ma è nel teatro che trova il suo ruolo principale. Eduardo De Filippo lo ha reso protagonista nella commedia Sabato, domenica e lunedì, in cui il rapporto tra i personaggi si intreccia con la preparazione di questo piatto. Rosa Priore, una dei protagonisti, illustra l'importanza del tempo e della cura nella preparazione, affermando: "Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma… si ottiene quella salsa densa e compatta" che è l'essenza del vero ragù.
La ricetta della famiglia Priore, trasmessa da generazioni, simboleggia il legame tra tradizione e identità familiare. La commedia, diventata famosa anche grazie alla trasposizione cinematografica di Lina Wertmüller nel 1990 con Sophia Loren, mostra come il ragù possa essere al centro di discussioni accese, persino in una macelleria.
Il ragù compare anche in altri film, come Incantesimo napoletano (2002), opera d'esordio di due registi che avrebbero poi fatto la storia del cinema italiano contemporaneo come Paolo Genovese e Luca Miniero. In questo film ci sono i due zii della protagonista sottolineano la sacralità della preparazione del ragù: "Il ragù non è solo un sughetto… tutti si vogliono più bene". Qui, il sugo diventa metafora della vita familiare e della connessione tra generazioni. Per tutto il film i due personaggi sono ripresi solamente a camera fissa, in varie fasi della giornata, intenti a mescolare il sugo in una pentola gigantesca.
La sua presenza nel cinema si estende anche alla trilogia de Il Padrino di Francis Ford Coppola, dove Clemenza insegna a Michael Corleone la ricetta del ragù come simbolo di trasmissione di saperi: "Si comincia con un poco d’olio… ci metti uno schizzo di vino e nu' pucurille ‘e zucchero". Nel romanzo di Mario Puzo, Clemenza (che in lingua originale ha origini siciliane e non napoletane) è descritto come un uomo diviso tra ferocia e dolcezza, sempre intento a cucinare il sugo, confermando il ruolo del ragù come simbolo di legame familiare e di scorrere del tempo.
Vorremmo citare un detto molto antico reso memorabile sia da Roberto Benigni sia da Luciano De Crescenzo in risposta a Umberto Bossi su "Roma ladrona" e sul Sud Italia ma non è politically correct ai giorni nostri però diciamo che quando già il ragù napoletano risultava essere una ricetta popolare, il ragù bolognese era ancora in una fase embrionale. Quindi sì, il ragù napoletano è più antico del ragù bolognese.
Il primo piatto vagamente simile al ragù odierno lo ritroviamo solo a metà Ottocento con un sugo arricchito da midollo, prosciutto e pomodoro, e carne tritata avanzata dalla cottura. Addirittura c'è una ricetta del 1863 firmata da un torinese che ricorda il ragù alla bolognese. Il nome della ricetta? "Maccheroni alla napoletana", a riprova di quanto il piatto campano fosse penetrato nella cultura di tutta Italia già nel 1800. Anche in questo caso la carne macinata era una parte del condimento della pasta e non un secondo piatto da mangiare successivamente come nel piatto partenopeo.
La prima vera codificazione del ragù alla bolognese c'è solo nel celebre La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi del 1891 che descrive i "Maccheroni alla bolognese": pancetta di maiale e carne di vitello, soffritto con sedano, carota e cipolla, e cotto nel brodo da arricchire, qualora lo si volesse, con funghi secchi, tartufo, fegatini di pollo e latte. Nel ‘900 il pomodoro entra nella ricetta e le tagliatelle diventano un elemento costante su suggerimento dello stesso Artusi che le preferiva ai maccheroni. Solo negli anni '50 c'è l'introduzione di carne di maiale fresca e solo nel 1982 la ricetta diviene "ufficiale" con il deposito alla Camera di Commercio di Bologna dall'Accademia Italiana della Cucina.