Comprare biologico non è sempre sinonimo di una maggiore qualità, ma la certificazione può orientare un consumatore interessato sia alla bontà del prodotto sia alla sua origine.
L’olio di oliva è un alimento simbolo nella dieta mediterranea, il condimento per eccellenza perché, sempre se assunto correttamente, è ricco di proprietà nutrizionali e agenti benefici per la salute. Gli oli di oliva, com’è noto, non sono tutti uguali: secondo la classificazione standard messa a punto dall’Unione Europea, siamo di fronte a un olio di qualità superiore solamente quando ci riferiamo all’olio extravergine d’oliva, ovvero un prodotto che rispecchia determinate caratteristiche organolettiche, privo di difetti e con un livello di acidità inferiore allo 0,8%. Negli scaffali dei supermercati è comune trovare anche l’olio extravergine di oliva biologico: si posiziona a un livello più alto di quello tradizionale? La risposta potrebbe essere “in potenza, sì”, ma non è detto che la certificazione bio corrisponda automaticamente a un aumento del pregio. Vediamo cosa cambia nella scelta dell’uno o dell’altro.
La filiera olivicola biologica italiana si inserisce a tutti gli effetti all’interno di quel sistema di produzione agricola disciplinato dai regolamenti CE n. 834/2007 e CE n. 889/2008 che racchiude tutte le definizioni e i metodi di lavorazione affinché un alimento – di origine vegetale, animale o trasformato – possa essere chiamato biologico. Generalizzando, perché le variabili che si presentano per legge sono moltissime, si dice bio una produzione agricola, di allevamento o di acquacoltura che rispetta il terreno garantendone la fertilità, il benessere animale, tutelando la salute e le condizioni di vita delle specie coinvolte, e favorisce la biodiversità. Per questo nelle coltivazioni, per esempio, non sono ammessi o sono altamente limitati trattamenti per il suolo o aerei che implicano l’avvalersi di pesticidi, insetticidi, diserbanti e altre sostanze chimiche tipo fertilizzanti. Inoltre è severamente vietato l’uso di organismi geneticamente modificati (Ogm). In particolare, per l’olio extravergine biologico, le olive una volta raccolte devono essere lavorate in frantoi che hanno ricevuto la licenza bio, senza avere contaminazioni con produzioni che non lo sono. In Italia, secondo i dati raccolti nel 2018 dal Sinab (Sistema d’Informazione Nazionale sull’Agricoltura Biologica) in un corposo report, la Puglia è la regione più votata al biologico (31% dei terreni), seguita da Calabria (28%) e Sicilia (16%).
C’è da dire che la coltivazione tradizionale dell’ulivo raramente subisce trattamenti così invasivi da risultare dannosi per la salute umana o da modificare sensibilmente le proprietà organolettiche del prodotto finale: da questo punto di vista, quindi, tra un olio extravergine d’oliva bio e uno che non lo è non vi è una differenza sostanziale. In più, biologico non fa rima con qualità maggiore a tutti i costi: dipende sempre dalla materia prima da cui si parte e da come vengono eseguite le fasi della sua trasformazione. Ciò che risulta essere un discrimine importante, invece, è quello legato al fattore di impatto sull’ambiente: leggere in etichetta che l’olio che si sta acquistando è di provenienza biologica significa che sono state messe in atto le pratiche necessarie affinché quel prodotto risulti virtuoso nei vari processi della filiera, facendosi espressione della valorizzazione del territorio da cui proviene e non del suo sfruttamento e impoverimento.