Non solo Brunello a Montalcino. Nel cuore della Val d'Orcia non prende vita esclusivamente uno dei vini più famosi del mondo, ma anche un altro prodotto meno conosciuto al grande pubblico ma capace di "salvare" i borghi della zona. Alla scoperta del pecorino sardo realizzato in Toscana.
Antichi borghi, distese verdi, esodi di contadini e un formaggio. Poche parole utili per riassumere il contesto di questo racconto: quella in cui è protagonista un'Italia ancora fortemente legata all'agricoltura ma in via di sviluppo, in una storia in cui gli attori sono i pastori della metà dello scorso secolo.
Può un pecorino salvare antichi paesi, e con loro le campagne circostanti, da uno stato d'abbandono che sembrava inevitabile? In questo racconto la conferma di come la gastronomia, con le sue tradizioni, non sia legata esclusivamente alla cucina di un luogo, ma si ispiri e venga ispirata a sua volta da fattori apparentemente esterni i quali, però, la formano e delineano dall'interno. Il preciso contesto di quel periodo, ciò che accadde a livello sociale e culturale è alla base di questa storia. La storia di come il pecorino sardo fu capace di salvare antichi borghi toscani.
Capita che una particolare zona d’Italia, territorialmente limitata e ben delimitata, sia famosa in patria e all’estero per l’eccellenza di un suo prodotto. È il caso, per esempio, della Val D’Orcia, quel lembo di terra della provincia senese comprensivo i comuni di Castiglione d'Orcia, Pienza, Radicofani, San Quirico d’Orcia in cui sorge l’antico borgo di Montalcino e, assieme a lui, quello che è probabilmente il vino italiano più noto e apprezzato all’estero: il Brunello.
Ottenuto in purezza da uve Sangiovese, si tratta di un vino leggendario, prodotto già nella seconda metà dell’800 ma che ha riscosso successo internazionale solo un secolo dopo, uscendo con tutta la sua forza e vigore da quel piccolo territorio in cui nasce. Identitario, seppur meno noto al grande pubblico, di questa parte di Toscana è anche un altro prodotto appartenente alla tradizione enogastronomica italiana. Costretto, per ovvie ragioni, quasi a vivere all’ombra del Brunello, ma capace tuttavia di ritagliarsi il suo spazio nella cultura cibaria locale. Se non altro perché dietro alla sua produzione si cela una storia sociale importante, fatta di persone in fuga. Chi dai borghi e dai campi della Val D’Orcia, in cerca di fortune in città, chi dalla propria isola, arrivate qui dopo aver attraversato il mare.
È la storia di famiglie pastorali sarde in grado, a loro modo, di salvare, riqualificare e rivalorizzare terre e borghi che altrimenti, forse, sarebbero stati abbandonati a loro stessi a seguito della crisi della mezzadria (del 1964 la legge che ne aboliva la stipula di nuovi contratti dal 1974), a cui fece seguito un massiccio spopolamento dei campi da parte delle famiglie contadine locali. Questa normativa favorì un massiccio esodo in città dove, nel frattempo, stavano aumentando le possibilità lavorative. In particolar modo nel settore industriale.
Questa sorta di fuga favorì un’offerta della terra a basso costo, in un periodo che coincideva in Sardegna con un aumento della domanda da parte del mondo rurale e pastorale, dato anche da un importante, forse eccessivo, incremento di esemplari ovini sull'isola. Servivano, insomma, nuove terre per i pascoli.
Come il pecorino sardo in Toscana ha contribuito a salvare e recuperare borghi e terreni che altrimenti, sarebbero stati pressoché abbandonati a sé stessi? Spesso quando si parla di gastronomia e tradizioni è necessario scavare molto indietro nel tempo, per trovare origini e usanze risalenti a secoli e secoli fa. Questa volta no, questa volta è sufficiente volgere lo sguardo ad appena 6 o 7 decenni or sono, comprendendo come tutto ciò sia avvenuto non nel Medioevo o in periodi storici remoti, bensì in epoca moderna.
Bisogna tornare indietro di 60-70 anni, a quando tanti tra contadini e pastori della Val D’Orcia (ma non solamente) decisero di lasciare i campi e la dura vita della terra per cercare fortune in città. Molto fu conseguenza della crisi (diventata poi abolizione) della mezzadria, sistema al tempo più diffuso nel settore agricolo.
In questo contesto i contadini sardi si può dire abbiano dato un forte contributo, forse anche in modo inconsapevole, alla rivitalizzazione delle terre senesi grazie per lo più agli allevamenti ovini.
Fatto sta: i terreni si stavano spopolando e probabilmente sarebbero rimasti abbandonati se non fosse stato per l’emigrazione di famiglie (o singoli individui) provenienti dall'isola, qui insediatesi dopo un lungo viaggio via mare e via terra. Tanti di loro dalla Sardegna non ci erano mai usciti, tanti di loro la Toscana la conoscevano solamente per sentito dire, e qui trovarono strutture agricole per lo più abbandonate, spesso in condizioni di degrado. Tuttavia in uno stato non di rado migliore rispetto a quelle lasciate sull’isola.
Dopo aver attraversato il Tirreno, una volta sbarcate nei porti laziali o toscani, queste famiglie con il loro bestiame arrivavano in Val D’Orcia al termine di una lunga e faticosa camminata. Qui in Toscana, giunti in cerca di fortune (tra terreni più ampi e redditizi rispetto a quelli sardi), stipulano contratti di affitto con chi invece se ne stava andando, arrivando poi in alcuni casi nel corso degli anni ad acquistare terreni e immobili in cui si erano ormai stanziati.
Stavano dando inizio a una nuova vita, e in pochi sarebbero poi tornati nella loro Regione di origine. Il tutto, rimanendo informati su ciò che accadeva sull’isola solo attraverso la lettura dei giornali sardi, acquistati in abbonamento perlomeno da chi sapeva leggere. Nel Continente, qui tra le Crete senesi e i cipressi le cui silhouette disegnano l'orizzonte toscano, i pastori sardi riuscirono a stanziarsi stabilmente, stringendo rapporti ora più ora meno stretti con le comunità locali (non sempre la convivenza fu facile) e dando vita a quella che a tutti gli effetti diventò la loro seconda e definitiva casa.
Qui in Val d'Orcia i pastori iniziarono la realizzazione di prodotti per lo più caseari, tra i quali un pecorino capace nel corso dei decenni di imporsi come specialità tipica di questa parte di Toscana. A tal punto da arrivare a essere riconosciuto con la Dop.
Emblematico il caso di Contignano, frazione da poche centinaia di abitanti del comune di Radicofani, la cui preservazione fu opera dei pastori arrivati dall'isola e, soprattutto, del parroco locale. Capace di racchiudere tanti produttori di latte sotto un'associazione comune.
Quando la comunità locale decise di spostarsi verso i grandi centri urbani il destino di Contignano, all'inizio degli anni 60, sembrava segnato. Determinante fu il contributo del parroco, don Oscar Guasconi, in grado con una sua intuizione di salvare il piccolo borgo di campagna.
L'assist arrivò proprio dall'arrivo dei contadini sardi che, stanziatisi in zona con i loro pascoli, vennero riuniti proprio dal prete in una cooperativa chiamata Caseificio Produttori Latte Val d'Orcia. Era il dicembre del 1964.
Così facendo non solo si evitò un'inutile guerra tra poveri, ma la potenziale concorrenza tra pastori venne trasformata in collaborazione, in uno sforzo congiunto di energie in grado di salvaguardare sia il duro lavoro di ognuno, sia il territorio stesso.
La cooperativa si impegnò nella raccolta, trasformazione e commercializzazione dei prodotti caseari, coinvolgendo in quest'ottica sia i nuovi sia i vecchi abitanti di Contignano. Perlomeno quei pochi che erano rimasti. Una mossa lungimirante, tant'è che ancora oggi il Caseificio Val d'Orcia continua a produrre il Pecorino Toscano Dop contando oltre 150 associati.
A distanza di pochi decenni oggi i discendenti di quei pastori arrivati in Toscana, tra molti dubbi e incertezze, sono riusciti a trasformare un'attività famigliare di mera sussistenza, in aziende vere e proprie. I cui prodotti sono richiesti anche all'estero.