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15 Gennaio 2025 15:30

Marino Niola: “Per conoscere una città bisogna mangiarla”. Il cibo come riscatto dell’identità napoletana

La cucina come elemento fondamentale di una identità in continua evoluzione, quella di una città che è cambiata molto nell'ultimo decennio. Di questo e molto altro abbiamo parlato con Marino Niola, professore di Antropologia contemporanea e grande esperto di tradizioni, in un luogo d'eccezione come la sala de I trionfi di Bacco del Museo e Real Bosco di Capodimonte.

A cura di Francesca Fiore
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"Per conoscere a fondo una città, il primo modo è mangiarla". In questa frase è racchiusa la visione di Marino Niola, professore di Antropologia contemporanea e grande esperto di tradizioni, che abbiamo intervistato in un luogo d'eccezione: la sala de I trionfi di Bacco del Museo e Real Bosco di Capodimonte. Qui abbiamo affrontato il tema del rapporto fra Napoli e l'arte culinaria, per fare un viaggio fra passato, presente e futuro, e capire come il cibo non sia solo puro nutrimento, ma anche un simbolo e un'identità che raccontano la città.

Napoli, dove sacro e profano si mescolano

Napoli è paradiso e inferno nella stessa via: questa è la sostanza stessa di Napoli e spiega bene come qui si mescolino l'alto e il basso, il sacro e il profano, non solo a livello socio urbanistico, ma soprattutto a livello gastronomico. La cultura gastronomica napoletana "alta", quella delle corti, si è sempre mescolata con la cultura gastronomica "popolare" e di questo ne ha sempre fatto un vanto. Perché la gastronomia, nello specifico quella borbonica, sentiva questa necessità?

"A Napoli alto e basso sono mescolati in tutto: nella gastronomia, nell'arte, nella musica, gli umori bassi e gli umori alti diventano una cosa sola e danno un sapore e un tono inconfondibile alla città. Quello che percepiscono i viaggiatori stranieri del Gran Tour del ‘700, quando ‘i più begli spiriti d'Europa' vengono qui perché sono attratti da questo mix, qui vogliono vedere la vita, cioè coglierne il suo sapore inconfondibile, capire qual è il segreto della vita di questo popolo che riesce a sembrargli felice malgrado la miseria. Una delle cose che li colpiscono di più è il cibo, il modo di mangiare, perché ha tutti questi aspetti, ha l'anima e la carne, l'alto e il basso mescolati insieme. E alla fine questi elementi hanno un sapore che diventa inconfondibile: ecco perché la grande cucina di corte che a Napoli è antichissima, risale addirittura ai primi anni del 200, si mescola alla cucina popolare.

Di tutto questo abbiamo molte tracce storiche, che dimostrano questo tipo di rapporti?

"Recentemente ho lavorato su un manoscritto che si trova alla Biblioteca nazionale di Francia, il così detto ‘Meridionale', un manoscritto in volgare, che di fatto è l‘origine della cucina italiana, c'è perfino la prima ricetta dei ravioli che di solito vengono erroneamente attribuiti alla gastronomia settentrionale, perché i ravioli sono di origine mediorientale e quindi penetrano in Italia dal basso, dal Sud: quasi tutto quello che succede in Italia arriva dal Sud. La prima ricetta della genovese la troviamo in questo manoscritto e si chiama ‘tria genovese': la tria era il nome arabo della pasta e la parola genovese deriva dal fatto che tutti gli ingredienti del piatto pasta venivano da Genova, città che aveva il monopolio del commercio della pasta. Si trattava di uno stracotto di cipolla senza carne, quello che oggi a Napoli si chiama ‘finta genovese'. Questo ci spiega come oggi la ‘finta genovese' sia in realtà l'originale, la cucina di corte l'0ha arricchita di carne e ne ha fatto un piatto simbolo delle cucine elitarie. Ed è esattamente la stessa cosa che succede nei conservatori, dove si fanno gli esperimenti sul contrappunto però poi sentono le melodie dei cantori popolari e le copiano, arricchendo queste creazioni. Questo è Napoli, tutto si mescola perché la città stessa è quasi sacra".

Il professore cita un aneddoto interessante che rappresenta bene questa mescolanza e questo senso di sacro che percorre la città. Quando Jean Cocteau nel 1917 arriva a Napoli per iniziare a lavorare sul sipario di Parade, il balletto ideato dallo stesso Cocteau su musiche di Satie che andò in scena a Parigi nel maggio dello stesso anno, scrive a Picasso per invitarlo a raggiungerlo, ma il pittore risponde: "Sto bene a Roma, e poi c'è il Papa'". Immediata la risposta del poeta all'amico pittore: "Sì è vero, a Roma c'è il Papa, ma a Napoli c'è Dio". "Lui coglie questa mescolanza – spiega il professor Niola – che ha qualcosa di sacro e che vediamo ancora oggi".

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La costruzione dell'identità italiana: il mito della pizza margherita

C'è un aneddoto particolare che coinvolge il bellissimo Giardino Torre e il suo forno, ovvero il mito della nascita della pizza napoletana, riproposto in varie versioni. È stato legato a Margherita di Savoia, ancora prima era legata a Maria Carolina d'Austria. Al di là della veridicità, quello che ci interessa sapere è se si può considerare una forma di storytelling. Che rapporto hanno i napoletani con il racconto del loro cibo?

"È una forma di storytelling astuta, perché manipola molto bene i simboli. Il caso della margherita è emblematico, dice che questo pizzaiolo è chiamato a corte perché la regina ha voglia di una pizza e lui ne fa una per lei…e cosa ci mette? Il bianco della mozzarella, il rosso del pomodoro e il verde del basilico, i colori della bandiera del nuovo Stato. Un modo per delineare una nuova identità, quindi se la storia non è vera è comunque ben inventata, significa che erano molto abili nel racconto. Resta il fatto che la pizza per i napoletani era un cibo fondamentale su cui costruire la narrazione identitaria, tant'è vero che poi in pochi decenni diventa un simbolo del cibo napoletano in pochi decenni, a che grazie agli immigrati che la portano negli angoli più sperduti ndel mondo. Quello che nasce come cibo dei più poveri in poco tempo diventa il confort food più conosciuto del pianeta, il simbolo dell'Italia da mangiare".

Riscattarsi attraverso il cibo

Il tema dell'immigrazione è fondamentale in questa storia. Come hanno fatto i migranti napoletani, e più in generale i popoli del Sud, a portare fuori questi filoni culinari che poi sono diventati delle cunine autonome? Un esempio su tutti è la cucina italo-americana che viene spesso denigrata ma che ha una sua dignità, una sua storia che si distacca dalla cucina italiana.

"Basti pensare a piatti come gli spaghetti and meatballs, simbolo della cucina italo-americana. Come dice Martin Scorzese sono entrambe le cose, sono italiani e americani: non ha caso lui dedica alla preparazione di un ragu con le polpette uno dei suoi più bei film, che si chiama proprio ‘Italian american'. Alla fine nei titoli di coda scorre anche la ricetta delle polpette, che fu salutata da una standing ovation. Era l'epopea di una presenza italiana in America, di quello che questa cultura aveva fatto arrivando lì poverissima, emarginata e che invece si era conquistata un ruolo importante. Un modo per riscattarsi attraverso il cibo, tant'è vero che nell' Upper East side si facevano le conserve di pomodoro. Ancora oggi molti italo americani di origini meridionali lì a settembre fanno la conserva di pomodoro".

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Il presente della città: valorizzare la cultura gastronomica senza appiattire

Parliamo del presente di questa città. Napoli ha un rapporto viscerale con la sua cucina, unico nel suo genere, allo stesso tempo la cucina è uno degli elementi che attrae di più anche il turista. Come si fa a valorizzare la cucina locale senza schiacciarla sull'aspetto prettamente mangereccio e senza schiacciare tutta la complessità culturale di questa città su quell'aspetto?

"Serve inventare narrazioni e storytelling altrettanto efficaci. Se la cucina è sovraesposta è anche perché ha una narrazione secolare alle spalle, che precede il turismo e che quindi fa sì che molti turisti vengano a Napoli a cercare questi aspetti legati alla vita popolare, e il cibo è l'espressione più genuina della vita popolare. In fondo è anche vero che per conoscere a fondo una città, il primo modo è mangiarla, mettersela in corpo, molto più che i quadri dei musei o delle opere d'arte. L'opera di Caravaggio lo posso trovare anche altrove, certe cose legate al cibo le trovo solo qui: andando nei mercati, parlando con la gente, capendo cosa mangiano, con chi a che ora…Tutto questo mi fa entrare lentamente nello spirito di una città. È anche vero che a Napoli ancora si riesce a mangiare vere eccellenze a un prezzo democratico, cosa che ti fa capire che l'eccellenza non è solo una questione di potere d'acquisto, ma una questione di misura. Ecco, in tal senso il cibo è misura, il saper misurare costi, benefici, soddisfazione, quello che sono disposto a spendere: la grande cucina è questo, non è solo saper selezionare le grandi materie prime, ma trasformare in eccellenza anche l'ingrediente più sfigato".

Napoli, la cucina e l'overtoursim

Ed eccoci arrivati al futuro: la cucina è e sarà ancora una degli asset principali di richiamo, ma può essere proprio la gastronomia napoletana il timone che non fa navigare a vista, che non ci fa andare contro gli scogli di un over tourism? Si tratta di un problema ormai molto dibattuto, quella dell'eccessiva presenza turistica che poi dimentica la città e i suoi abitanti.

"Credo che la gastronomia possa essere la punta di diamante di una nuova narrazione di sé della città, come oggi la gastronomia di tutto il Paese è la punta di diamante del Made in Italy. La cucina e la cultura gastronomica possono davvero fare la differenza, in un posto che ha promosso una gastronomia così capillare, dove tutto si mescola e tutto tende a essere sostenibile, locale, stagionale, che non fa eccessivamente ricorso a grassi animali né al consumo eccessivo di questi prodotti…"

Ma anche una grande presenza di carboidrati…

"Sì quelli sono la base della vita: le grandi madri della mitologia antica regalavano i carboidrati all'umanità, da Era e Cerere….Da questo punto di vista si può raccontare tutta la storia della città attraverso il cibo. La sua storia, l'arte, l'economia, la sua musica…Il cibo diventa il modo che ha la città per rappresentarsi e raccontarsi. Tutte le storie che riguardano il cibo sono storie che non parlano solo di alimentazione…si parla di storia sociale, convivialità, rapporti fra le diverse componenti della città…C'è una presenza continua della cucina come codice che non serve a parlare solo di se stessi, ma se serve a parlare di altro, del rapporto con il piacere e con la convivialità, con la felicità. La felicità non è vietata, bisogna cercarla…è un dovere cercare la felicità. In questo il cibo può avere un ruolo fondamentale: il food salverà il Sud".

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Quello che i piatti non dicono
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