Un personaggio istrionico che ha creato le uova più buone (e care) al mondo. Non c'è stellato che non usi le uova di Paolo Parisi, un'etichetta diventata sinonimo di qualità e di eccellenza italiana nel mondo. Lui che ha ridato dignità alla cinta senese, uno dei maiali migliori in Italia, e che ha conquistato la ristorazione col suo semplice Uovo Assoluto.
Le uova di Paolo Parisi sono ormai un marchio. Un prodotto semplice, diventato simbolo dell’alta cucina grazie all’intuizione e al coraggio di un toscanaccio purosangue, con delle idee fortissime che seguirebbe fino alla morte. Nell’intervista a Paolo Parisi bisogna mettere in conto di poter parlare di qualsiasi cosa, di riflettere molto e di ridere di gusto, perché il personaggio va ben oltre il sapore unico di queste uova che “sono più buone delle altre, perché le galline sono libere”.
Paolo Parisi è contro le etichette. Gli hanno detto che per allevare le uova c’era bisogno di importare la soia dall’Argentina e ha trovato un palliativo, diventato poi marchio di fabbrica. Gli hanno detto che il maiale di cinta senese stava per estinguersi, e lui ne ha reso un prodotto pregiato salvando una specie insieme a pochi altri allevatori. “All’inizio è tutto una moda, lo era anche il maiale ma non sai che fatica portar su questa razza. Negli anni ‘80 stava scomparendo, i contadini non lo volevano perché il maiale senese è troppo grasso e le persone non vogliono il grasso. In realtà il grasso di questo maiale è buonissimo e una volta assaggiato ne vuoi di più ma ricordo che, pur regalando i maialini, i contadini non li volevano e dicevano che gli procuravo un danno”. Poi le cose sono cambiate “Perché la qualità non si può fermare. Ho scelto di allevare solo questo tipo di suino perché non potrei allevarne altri: vivono nei boschi, si nutrono di ghiande, sono selvatici. Li controlliamo, li osserviamo e ne facciamo tanti salumi buonissimi ma all’inizio era moda, stessa cosa le uova”.
Oggi però Paolo Parisi è un’etichetta a sua volta, ed è sinonimo di qualità “Ma questo status me lo hanno dato gli chef. Sono tantissimi gli stellati che usano le mie uova perché sono più buone delle altre e così la gente ha cominciato a fidarsi. Oggi è vero, le uova di Paolo Parisi suonano come un’etichetta, ma di grande qualità”.
Ma sono davvero così buone queste uova? La risposta è sì, lo sono. Bianchissime, dal sapore corposo, abbinabili a tutto anche se “L’uovo più buono mai mangiato, nonostante la conoscenza con tanti cuochi straordinari, è l’Uovo Assoluto che faccio io a casa”. Le galline vivono all’aperto e al posto della soia si nutrono di latte di capra. A dispetto di quanto si racconta, il latte non dona un sapore migliore alle uova, è semplicemente un alimento nutriente per le genitrici. La scelta è dovuta alla filosofia di Parisi, che fa lavorare la fantasia in contrasto con la visione consumistica imperante nella società di oggi: “Per dar da mangiare alle galline si usa la soia: un seme oleoso che per essere digerito dall’animale ha bisogno di una tostatura. Le capre le avevo già lì, il latte per le galline non lo devo trattare, mi è sembrata la cosa più logica. E quando mi dicono che il latte di capra costa tanto, gli faccio presente che la soia la devo importare e lavorare. Sicuri che costi tanto di più il latte di un animale che ho già in allevamento? Io non sono sicuro”.
Se c’è un termine che si addice a quest’uomo è senz’altro quello di “sognatore”. Paolo Parisi ha visto una via e ne ha voluta tracciare un’altra tutta sua che raccontasse la propria verità. Può essere giusta o sbagliata, ma è reale e firmata.
La maggior parte dell’intervista di Parisi non riguarda lui, non riguarda i suoi prodotti, ma riguarda il mondo. Dal riscaldamento globale al coronavirus fino al rapporto con le donne, il sesso, il concetto stesso di ristorazione. C’è poi il rapporto coi contadini “Che sperano di andare a vivere in città, mentre quelli della città vogliono andare in campagna, è la storia dell’uomo: ognuno vuole ciò che non ha. Il segreto è cercare di capire ciò che non si ha e provare a raggiungerlo”.