Quella della famiglia Florio è una saga da conoscere perché lega vite private, intuizioni commerciali e storia d'Italia in modo talmente appassionante da sembrare davvero frutto di un romanzo.
“Bisogna dare fiducia alle idee dei Florio, specialmente quando sono una follia”, si sente dire in una puntata della serie tv I Leoni di Sicilia dedicata alla famiglia di origini calabresi che per poco meno di 150 anni fu protagonista delle maggiori vicende economiche, culturali, politiche e mondane di Palermo e dell’intera Sicilia. Si chiamano Paolo, Ignazio, Vincenzo, Ignazio (detto senior), Ignazio (junior o Ignazziddu) e ancora Vincenzo, in una tradizione che voleva che i nomi maschili (ma anche femminili) si ripetessero di generazione in generazione, con un albero genealogico che fa somigliare i Florio al mitico clan Buendia del romanzo Cent’anni di solitudine, tra gli innumerevoli José Arcadio e Aureliano nati dalla penna di Gabriel Garcia Márquez. Anche in questa storia c’è di mezzo una penna, quella della scrittrice Stefania Auci, che con i due libri I Leoni di Sicilia e L’inverno dei Leoni ha riacceso l’interesse per una saga familiare ambientata nel Sud Italia che riporta alla memoria i fasti e la decadenza di un altro felino, il Gattopardo, che proprio a quella borghesia imprenditoriale rappresentata dai Florio dovette arrendersi.
Il leone simbolo dello stemma dei Florio è febbricitante, e si abbevera a una fonte d'acqua circondata da piante di china. Dalla corteccia di questo albero si estrae il cortice o chinino, unico rimedio alla malaria che permise ai capostipiti della famiglia, i fratelli Paolo e Ignazio, insieme a Giuseppina, la moglie del maggiore, di far fortuna a Palermo, dopo essersi trasferiti da Bagnara Calabra nel 1799 e aver aperto la loro drogheria in via dei Materassai, dove vendevano diverse tipologie di spezie, dallo zafferano al sommacco, usate all’epoca a scopo alimentare, terapeutico e cosmetico.
Per tutti erano i putiari, i bottegai, che nel corso del tempo grazie alla loro ambizione avrebbero messo la firma ben oltre quella via. Nella Palazzina dei Quattro Pizzi nel borgo dell'Arenella, dove i Florio acquistarono la loro prima tonnara nel 1830, Vincenzo, il figlio di Paolo morto di tubercolosi nel 1807, stabilì la sua magnifica residenza con la moglie Giulia Cantalupi e i figli Angela, Giuseppina e Ignazio senior; l’Olivuzza, invece, era uno splendido villino in stile Liberty opera del famoso architetto Ernesto Basile che vede nei primi del ‘900 ospitare la crème de la crème della buona società europea. E ancora il lussuoso Hotel Villa Igiea, dove adesso si celebrano eventi e feste di matrimonio, altro non era inizialmente che un sanatorio per Igiea Florio, figlia di Ignazio junior. Pure il Teatro Massimo, inaugurato nel 1897 con la messa in scena del Falstaff di Giuseppe Verdi, fu abbondantemente finanziato da Ignazziddu e la moglie Franca Jacona di San Giuliano, una vera e propria leonessa che conosceremo più avanti.
Le idee dei Florio potevano sembrare follie per il loro alto potenziale di rischio (in realtà sempre più o meno calcolato), per cercare novità tecnologiche all’estero e per non avere confini di visione: Vincenzo Florio in meno di 10 anni, dal 1832 al 1841, fece una piccola rivoluzione di quello che ora potremmo definire il mondo del food & beverage. Per prima cosa sfidò gli inglesi trapiantati in Sicilia e impegnati nella produzione del Marsala: il vino liquoroso fu infatti messo a punto dal mercante John Woodhouse nella seconda metà del ‘700 ed esportato in tutto il mondo a partire dal secolo successivo da Benjamin Ingham, che di Vincenzo Florio fu amico, padrino e consigliere. Don Vicé, così com’era chiamato, nel 1832 fonda le Cantine Florio, controllando tutta la filiera e innalzando la qualità del prodotto, facendolo diventare un vino di pregio: che sia romanzato o meno, nello sceneggiato diretto da Paolo Genovese lo si vede ordinare un’infinità di casse di costosissimo champagne francese per il matrimonio della figlia Angela, ma poi dichiarare che non gli piace, preferendo un bicchierino del suo Marsala.
Cosa c’entrano le scatolette di tonno con i Florio? Le hanno inventate loro. La paternità dell’intuizione si divide tra Don Vicé e il figlio Ignazio: il primo venne in possesso delle tonnare di Favignana e Formica nel 1841, dategli in gestione sotto forma di gabella dai marchesi Pallavicino-Rusconi, mentre il secondo, dopo la morte del padre avvenuta nel 1868, comprò le intere isole Egadi nel 1874 per una somma pari a 2.750.000 lire. Se Vincenzo ebbe probabilmente l'idea di mettere il tonno sott’olio in scatole di latta per conservarlo al posto che sotto sale come si faceva fino ad allora, è Ignazio a dare l’impulso industriale alla sua trasformazione e commercializzazione.
I Florio a questo punto erano di fatto una delle famiglie più influenti di tutta la Sicilia: possedevano una loro flotta per le merci, ma anche una compagnia di navigazione con passeggeri, erano senatori del Regno d’Italia, avevano una fonderia (la Oretea, uno dei più importanti impianti metallurgici del meridione), le solfatare, le tonnare, le cantine vinicole, possedevano banche, cantieri navali e saline. In più, sempre grazie a Ignazio si imparentano finalmente con la nobiltà, disprezzata, ma allo stesso tempo desiderata per potenziare gli affari: più per dovere che amore, prese in moglie l’aristocratica Giovanna d’Ondes Trigona, da cui ebbe 4 figli, Ignazio junior, Giulia, Vincenzo e un altro Vincenzo, il primogenito, che però morì giovanissimo.
La decadenza economica ha inizio con Ignazio junior, che dovette succedere giovanissimo, a soli 23 anni, al padre, scomparso nel 1891. La difficoltà di gestire l’immenso patrimonio andava però di pari passo con una popolarità che probabilmente la famiglia Florio non aveva mai davvero raggiunto in precedenza: Ignazziddu, infatti, aveva sposato nel 1893 dopo un travagliato corteggiamento, la baronessa Franca Jacona di San Giuliano.
Nella sala da ballo dell’Olivuzza, la villa in cui vivevano a Palermo, si riuniva tutta l’aristocrazia europea – Re, Kaiser e Zar compresi – che godeva dei divertimenti, del benessere e della spensieratezza tipica della Belle Époque. Franca Florio era soprannominata la “regina di Palermo”, tanto da essere definita “l’Unica” da Gabriele D’Annunzio e immortalata dall’artista Giovanni Boldini nel famoso olio su tela “Ritratto di donna Franca Florio”, commissionato dal marito Ignazio, che, però, una volta ultimato nel 1924 non apparterrà mai alla famiglia, in quanto finanziariamente in difficoltà e costretta pian piano a svendere il suo impero.
Oltre ai due coniugi, anche Vincenzo Florio si distingueva per il suo mecenatismo, soprattutto sportivo: è sua l’istituzione nel 1906 della Targa Florio, una delle più antiche competizioni automobilistiche, svoltasi fino al 1977.
Il momento in cui i Florio diventano delle personalità tragiche arriva in questi stessi anni sfavillanti, perché Ignazio e Franca perderanno in modo drammatico e a stretto giro tre dei cinque figli, tra cui l’amatissimo erede Ignazio, soprannominato Baby boy. Come riportato in un articolo su Balarm, per festeggiare la nascita dell’unico figlio maschio, il padre gli fece fare un bagnetto propiziatorio in una bacinella colma di Marsala: peccato che la fortuna durò solo 5 anni, visto che nel 1903 il piccolo venne trovato privo di vita in circostanze mai chiarite nella sua stanza durante un viaggio in Costa Azzurra con i genitori. Nel 1957 Ignazio muore, lo segue il fratello Vincenzo nel 1959: termina in questo modo la discendenza maschile dei Florio che segna la fine dell’epopea legata a imprese imprenditoriali talmente grandi da sembrare impossibili.