La zeppola di San Giuseppe è il dolce tipico della festa del papà. Oltre a quella napoletana, la più celebre e riconoscibile, ci sono tante altre versioni. Vediamo le diverse caratteristiche e soprattutto perché questo dolce si mangia proprio il 19 marzo.
È morbida, cremosa, golosissima, una tappa imprescindibile nel calendario gastronomico italiano: la zeppola di San Giuseppe è il dolce per eccellenza della festa del papà. La sua storia è antichissima: anche se nella sua versione più moderna collochiamo la sua nascita nel ‘800 napoletano, in realtà è figlia di una ricetta risalente, addirittura, all'antica Roma. Gli ingredienti per la ricetta di questo dolce squisito sono la farina, lo zucchero, le uova, il burro, l'olio d'oliva, la crema pasticciera, una spolverata di zucchero a velo e le amarene sciroppate per la decorazione. La tradizione le prevede rigorosamente fritte ma ormai da tanti anni è accettata la versione al forno, più leggera. In entrambi i casi sono tonde e vengono guarnite ricoprendole di crema pasticciera con sopra delle amarene. Anche qui andiamo incontro a una variante ormai accettata, anzi potremmo ormai dire che ha soppiantato la vecchia tradizione: le zeppole moderne sono anche farcite con la crema pasticciera, le più classiche sono invece vuote al centro. Vediamo la storia della zeppola di San Giuseppe e perché si regala ai papà il 19 marzo.
Tutto il discorso che andiamo ad affrontare è strettamente collegato, anche se non sembra: l'etimologia, il periodo in cui si mangiano e perfino la ricetta. La zeppola di San Giuseppe è lontana parente della pasta cresciuta che non a caso in molti chiamano "zeppola". Questa parola viene dal latino cippus, che rappresenta un comune pezzetto di legno, un ceppo. I Romani la chiamano così per via della sua forma: una zeppa piccola, fritta nell'olio bollente che si gonfia. Somiglia al cippus sia esteticamente sia "filosoficamente": la pasta cresciuta costa pochissimo e aiuta le claudicanti classi meno abbienti. Nel corso dei secoli le "cippus" hanno subito diverse variazioni, la più importante è proprio quella del "condimento": una versione più grossa e soprattutto dolce, che i Romani chiamano serpula, ovvero "serpe", perché ha la forma di un serpente acciambellato su se stesso. Con il tempo sarebbe diventata la cymbala, un'imbarcazione con la punta a forma di ciambella e, nel Medioevo, la saeptula, traducibile con "cingere", parola usata per tantissimi oggetti di forma tonda.
Risolto il problema del nome, veniamo alla festa: celebriamo San Giuseppe il 19 marzo non a caso. Ai tempi delle prime zeppole c'era una festa molto borderline, la Liberalia, dedicata alle divinità dispensatrici del vino e del grano nel giorno del 17 marzo. I protagonisti delle Liberalia sono Sileno, Bacco e Apollo e in loro onore si bevono fiumi di vino al miele e spezie e si friggono queste frittelle di frumento da mangiare per strada, sia dolci sia salate. Oltre ai Liberalia bisogna tener conto anche della primavera: il 19 marzo si festeggia la fine dell'inverno con i riti di purificazione agraria. Non a caso ancora oggi molte comunità del Mezzogiorno festeggiano San Giuseppe con grosse quantità di frittelle e grandi falò accesi durante la notte.
Ora dobbiamo fare un importante salto temporale: durante il Medioevo di "pastecresciute" dolci e salate ci sono flebili tracce ma la letteratura gastronomica che va dall'Impero Romano al 1700 è piuttosto scarna. Non a caso ritroviamo le zeppole e la loro ricetta per la prima volta solo nel 1837 grazie a Ippolito Cavalcanti e alla sua "Cucina Teorico-Pratica":
Miette ncoppa a lo ffuoco na cazzarola co meza caraffa d’acqua fresca, e nu bicchiere de vino janco, e quando vide ch’accomenz’a fa lle campanelle, e sta p’ascì a bollere nce mine a poco a poco miezo ruotolo, o duje tierze de sciore fino, votanno sempre co lo laniaturo; e quanno la pasta se scosta da tuorno a la cazzarola, allora è fatta e la lieve mettennola ‘ncoppa a lo tavolillo, co na sodonta d’uoglio; quanno è mezza fredda, che la puo’ manià, la mine co lle mmane per farla schianà
si per caso nce fosse quacche pallottola de sciore: ne farraje tanta tortanelli come sono li zeppole, e le friarraje, o co l’uoglio, o co la nzogna, che veneno meglio, attiento che ta tiella s’avesse da abbruscià; po co no spruoccolo appuntuto le pugnarraje pe farle suiglià, e farle
venì vacante da dinto; l’accuonce dinto a lo piatto co zuccaro, e mele.Pe farle venì
chiù tennere farraje la pasta na jurnata primma.Traduzione:
Metti sul fuoco una pentola con mezza caraffa d'acqua fresca e mezzo bicchiere di vino bianco, e quando sta per bollire mescola un rotolo di fior di farina e gira continuamente con un cucchiaio; e quando la pasta si stacca dal bordo della pentola allora è il vero punto di cottura. Togli dalla pentola e metti su un tavolo leggermente unto, una volta raffreddata in modo da poterla toccare, impasta e fanne tante porzioni, come dei piccoli tortani che poi friggerai con l'olio o con lo strutto che vengono meglio. Attento a non farle bruciare in padella; una volta salite a galla pungile con un forchettone per farle venire vuote all'interno. Cuoci finché non prendono un colore d'orato, falle gocciolare su una carta floscia e riponi nel piatto formando una piramide. Versa dell'acqua di rose e dello zucchero polverizzato. Per farle alla perfezione prepara la pasta il giorno prima.
Questa ricetta è molto importante perché è la prima traccia scritta delle zeppole ma in realtà è opinione comune che il primo autore del dolce non sia Cavalcanti. Ci sono varie ipotesi sull'invenzione di questo dolce, attribuita sia alle suore di San Gregorio Armeno sia a quelle della Croce di Lucca sia a quelle dello Splendore, sempre comunque a Napoli. Una teoria attribuisce poi le zeppole a Pintauro, inventore anche della sfogliatella riccia. Non sappiamo quindi chi sia il vero inventore della zeppola di San Giuseppe ma sappiamo che le prime ricette con la crema pasticciera sono comparse negli anni Cinquanta: parliamo dunque di un dolce abbastanza moderno. Ti dirò di più: fino agli anni '70 non esiste alcun legame con San Giuseppe. Sia nel libro di Cavalcanti sia nelle successive tracce scritte non si fa riferimento al santo, si parla solo di "zeppole". Un tempo la festa del papà coincideva però con la "festa del falegname", perché San Giuseppe è anche il santo patrono di falegnami e artigiani. Nell'Italia del Dopoguerra i padri regalano giocattoli in legno ai propri bambini. Alla fine degli anni '60 l'Italia istituzionalizza la festa del papà e, di fatto, inverte i ruoli: i figli cominciano a omaggiare i propri papà. È probabile, dunque, che il legame tra la zeppola di San Giuseppe e la festa del papà sia stata solo una geniale trovata di marketing dei pasticcieri partenopei degli anni '70.
Finora abbiamo parlato delle zeppole di San Giuseppe più famose, quelle partenopee, ma in realtà il Sud Italia è pieno di questi dolcetti ed è affascinante il loro sviluppo nel Mezzogiorno: seguono i confini dell'ex Regno delle Due Sicilie. Il punto più a Nord è infatti l'Abruzzo che ha le zeppole di Teramo, un bignè gigante ripieno di crema pasticciera e amarena, e a L'Aquila, la cui zeppola è una specie di ciambella lievitata e fritta. In Molise la zeppola è molto simile a quella napoletana ma vede un cucchiaino di marmellata all'amarena sostituire le amarene intere. A Itri, in provincia di Latina, il culto è particolarmente sentito: oltre al falò in onore di San Giuseppe c'è una variazione della zeppola molto popolare, con una base di farina, acqua e lievito. Questo dolce è un lievitato fritto in olio d'oliva e successivamente cosparso di zucchero o miele. Esiste perfino una versione ancor più elaborata, con l'aggiunta di latte e uova all'impasto. La tradizione vuole che si mangino proprio in occasione dei fuochi di San Giuseppe.
In Puglia bisogna fare un discorso a parte perché le zeppole sono l'ultima pietanza delle "Tavole di San Giuseppe", un'usanza antichissima tipicamente salentina che coinvolge tantissime famiglie: tutti insieme a mangiare e godere dei piatti tradizionali pugliesi, ognuno "impersona" un santo e il numero dei commensali non può superare i tredici. Le zeppole pugliesi vanno fritte nello strutto anche se ormai è una tradizione in disuso, la ricetta è invece molto fedele a quella delle nostre nonne: con acqua, strutto, sale, farina, limone grattugiato e uova, fritte o cotte al forno e decorate con crema pasticcera e crema al cioccolato o amarene sciroppate. La tradizione della zeppola pugliese si manifesta a San Giuseppe in quanto portata finale delle tavolate ma è l'unica zeppola italiana disponibile tutto l'anno, che non ha una specifica collocazione temporale. In Calabria invece la situazione è davvero seria: non una ma ben tre versioni di zeppola. A Catanzaro sono a base di strutto, farina, uova e ricotta e vanno rigorosamente cotte a forno; si farciscono poi con la crema pasticciera e e una ciliegia caramellata. A Cosenza le zeppole del 19 marzo sono identiche a quelle napoletane. A Reggio Calabria invece cambiano addirittura nome: non "di San Giuseppe" ma direttamente "zippuli duci ca' ricotta", ovvero "zeppole dolci con ricotta". Piccoli bignè con farina, zucchero, uova, vanillina e strutto, farciti con ricotta, zucchero, cannella, limone grattugiato e zucchero a velo.
Infine troviamo le zeppole di San Giuseppe in Sicilia e sono quelle più lontane dalla tradizione campana. Nella parte occidentale, in particolare a Palermo e Trapani, troviamo la sfincia di San Giuseppe: grande quanto un pugno, fritta, va impastata con uova intere e tuorli e a ciò si aggiunge del lievito con latte e zucchero, una volta cotte vanno ricoperte da una crema di ricotta di pecora con pezzetti di cioccolato e zucchero, guarnita da scorza d'arancia candita e pistacchio. Se queste occidentali ricordano vagamente quelle campane da un punto di vista estetico, quelle orientali sono ancor più distanti dalla tradizione "del continente". A San Giuseppe i catanesi mangiano le crispelle di riso, dei listelli di forma cilindrica fritti e ricoperti di miele d'arancio e zucchero a velo con cannella. Ma perché sono così diverse? A causa della loro storia. Le zeppole "continentali" vengono dall'Impero Romano, quelle "isolane" dalla dominazione araba: la sfincia compare, con nomi diversi, perfino nella Bibbia e nel Corano ed è una rivisitazione dei pani dolci persiani. La versione moderna è stata messa a punto prima dalle suore del monastero delle Stimmate a Palermo, e infine dai pasticcieri della città che hanno aggiunto la crema di ricotta, il pistacchio e i canditi.