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22 Novembre 2022 12:41

La “rivoluzione” della pizza contemporanea non è merito di Report

Un lungo servizio che dà adito a tante polemiche: Report si autointesta il merito della rivoluzione della pizza, i pizzaioli (solo alcuni) confermano, i veri protagonisti della rivoluzione si indignano. Ecco cosa c'è di vero e cosa no nel servizio di Report.

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Le telecamere di Report tornano a Napoli e lo fanno per parlare nuovamente della pizza. I giornalisti di Rai 3 confezionano un servizio in cui si affibbiano il merito della "rivoluzione della pizza" a seguito di un discusso lavoro del 2014: complici le dichiarazioni dei pizzaioli, che danno ragione alla trasmissione di Sigfrido Ranucci, l'operazione di auto incensamento sembra compiersi alla perfezione. Non tutto è oro ciò che luccica però e infatti oggi il web è pieno di aspre polemiche su quanto mostrato. Cerchiamo di fare un viaggio a ritroso negli ultimi, tumultuosi, anni della pizza per scoprire che il grande passo è stato fatto con un lavoro certosino di tanti professionisti, molto prima del 2014.

Riavvolgiamo il nastro

Cosa si diceva nel servizio del 2014? Bernardo Iovene otto anni fa mostrava tutte le brutture della pizza napoletana, brutture realmente esistenti in molti indirizzi, ancora oggi.

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Il primo punto fu la pulizia del forno, pieno di farine bruciate e residui di ingredienti, tutti elementi molto pericolosi a lungo andare, addirittura cancerogeni. A proposito di pericolo, il servizio mostrava la minaccia della combustione del legno e del fumo nero, ricco di idrocarburi. Report sottolineava la scarsa cultura dei pizzaioli che non conoscevano l'uso delle farine di tipo 1 e 2, usando solo la 00, che per la trasmissione è il male assoluto. Tutti gli ingredienti delle pizze erano di scarsa qualità: olio di semi e non extravergine, mozzarella tedesca, pomodoro cinese.

Tutto ciò mostrato nel video era vero, anche se l'Istituto Zooprofilattico di Napoli sollevò dei dubbi sugli idrocarburi presenti sulla pizza con delle analisi certificate.

Il punto, allora come oggi, è il modo in cui è stato raccontato questo mondo: Report è andata in alcune pizzerie, ha mostrato il male e ha ignorato tutti quelli che facevano un lavoro di ricerca già da molti anni. Con il servizio di ieri sera ci ha messo il carico, utilizzando le splendide musiche dei Mokadelic in sottofondo alle parti più oscure: bellissime, certo, ma i più attenti le hanno sicuramente riconosciute perché sono la colonna sonora di Gomorra – La serie. Nessuno può obiettare quanto fatto vedere da Iovene otto anni fa, nessuno lo fece neanche all'epoca: il mondo della pizza si sollevò perché a causa di alcune pizzerie disattente, tutta la categoria fu tacciata di ignoranza e poca igiene.

La pizza contemporanea di Report

Tutto il servizio verte su come il mondo pizza sia cambiato grazie al reportage del 2014, ma è davvero così? Tra i pizzaioli che avvallano la tesi c'è Gino Sorbillo, un simbolo della pizza napoletana: ci ha sorpreso visto che già nel 2014 il menu della sua pizzeria prevedeva solo uso di olio extravergine (di una marca importante), pomodoro San Marzano Dop e una delle migliori mozzarelle di bufala tutt'oggi sul mercato. Addirittura Sorbillo rispose a Report grazie a un video di Fanpage, mostrando la pala bucata per far cadere la farina in eccesso, altro punto su cui Report dibatte da tempo. All'epoca il maestro pizzaiolo invitò i giornalisti a tornare dopo qualche mese per constatare che quei pochi colti in fragrante avrebbero aggiustato il tiro, ma ribadendo che le pizze a Napoli si sapevano fare anche prima del 2014.

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Tra i protagonisti di ieri anche Ciro Salvo, titolare di 50 Kalò, che fu molto critico nel 2014 realizzando addirittura una "Pizza Report" senza bruciature: a parte la provocazione, tutta la famiglia Salvo fa il lavoro che Report si intesta, e lo fa da generazioni. Il papà di Ciro, Francesco e Salvatore (questi ultimi due titolari di altre due eccellenti pizzerie) ha cominciato anni fa a chiedere attenzione sugli ingredienti. I suoi figli, seppur in indirizzi diversi, hanno continuato la tradizione, implementandola fino all'eccellenza.

Il discorso potrebbe essere fatto con tutti i big della pizza campana della vecchia generazione: chi lavorava bene prima  del 2014 lo fa ancora oggi, non è cambiato nulla se non la naturale evoluzione di un prodotto di massa. Nel servizio sono presenti poi Diego Vitagliano, Vincenzo Capuano, Salvatore Lioniello, tutti e tre bravissimi, tutti e tre con delle idee rivoluzionarie, tutti e tre giovani. Il loro lavoro è figlio dell'evoluzione naturale di un prodotto sotto la luce dei riflettori, prendono a piene mani un lavoro fatto in passato e lo portano nel III Millennio. Il loro modo di intendere il prodotto si sviluppa dal filone della pizza canotto, nato intorno al 2011 con Carlo Sammarco: negli ultimi 10 anni il mondo pizza ha avuto un tale successo che lo stesso "stile canotto" ha ormai numerosissime sfaccettature. Lioniello fa una "diversamente napoletana", Capuano fa una "contemporanea", Vitagliano ha unito l'uso degli impasti speciali alle tecniche di stesura "alla vomerese". Una ricerca continua che colloca l'asticella di questa generazione di pizzaioli molto in alto.

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Il punto forse è ancora un altro: quando ha cominciato a cambiare il mondo della pizza? Difficile collocare una data ma è sicuramente ben prima del servizio di Report. Questo lo chiariamo subito: la trasmissione ha ragione quando parla di un prodotto vilipeso per anni, lasciato a se stesso in nome del "si è sempre fatto così". Fortunatamente però, grazie ad alcuni pizzaioli illuminati, le cose sono cambiate.

Possiamo provare a usare come anno zero il 2012: è l'anno dell'apertura di Pepe in Grani a Caiazzo e dei Masanielli a Caserta, rispettivamente di Franco Pepe e Francesco Martucci, due dei maestri che hanno trainato il carro della rivoluzione. Il 2012 è anche l'anno della prima Guida Pizzerie del Gambero Rosso e dei primi servizi internazionali su questo prodotto. Potremmo in realtà andare ancor più indietro, forse al 2010: l'anno in cui la Regione Campania candida all'Unesco l'arte del pizzaiuolo napoletano a patrimonio immateriale dell'umanità. Il 2010 è anche l'anno della prima pizzeria in Guida Michelin, La Notizia di Enzo Coccia, con la menzione (che ha tutt'ora). Il maestro già all'epoca usava solo prodotti Dop e olio extravergine d'oliva, solo legno certificato, con attenzione a temperature e tempi di maturazione. Non a caso nel 2015 sarebbe uscito un libro firmato da Coccia e dai professori Paolo Masi e Annalisa Romano che avrebbe spiegato scientificamente tutti i processi che portano alla creazione di una tonda.

Il vero processo di evoluzione della pizza comincia in quegli anni, tra il 2008 e il 2010, gli anni della crisi economica: in un'Italia costretta a fare i conti con le ristrettezze c'è stato l'appiattimento del ceto medio, quello che prima girava per ristoranti e che si ritrovava a potersi permettere solo una pizza. Quel sommerso mondo di "gourmand" alla ricerca di emozioni nuove si incontrava sempre più spesso in pizzeria, richiedendo però il livello dei ristoranti a cui erano abituati. Passo dopo passo i pizzaioli si misero  in pari, spesso rubacchiando dai grandi maestri del resto d'Italia come Renato Bosco, Simone Padoan, Stefano Callegari (il suo Trapizzino è addirittura del 2005) e Gabriele Bonci. Onestamente fatichiamo a capire perché tutti questi pizzaioli abbiano avallato la tesi di Report, pur essendo protagonisti in prima persona della rivoluzione della pizza.

Il canotto contro la tradizione

Un punto su cui hanno dibattuto molto nel servizio di Report è la sfida tra il presente e il passato, o almeno quello che i giornalisti ritengono essere passato. Dal servizio si evince una netta differenza tra la pizza napoletana tradizionale e quella contemporanea: una è buona e l'altra no? Nulla di più sbagliato. I due filoni vanno di pari passo ed entrambi migliorano i pizzaioli più intelligenti. Tra i citati possiamo usare come esempio proprio Enzo Coccia, i tre fratelli Salvo, Sorbillo come grandi esponenti della pizza tradizionale: stesura a schiaffo, forno a legna, farina 00. Tre cose che non sembrano piacere molto agli autori del servizio.

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Come per ogni cosa è sbagliato demonizzare un determinato prodotto a priori: la differenza la fa la mano del maestro e la qualità del prodotto. Vale anche il discorso inverso perché ci sono pessimi forni elettrici. Iovene nel servizio mostra come perfino l'Associazione Verace Pizza Napoletana abbia aperto la propria mente al forno elettrico. Ciò che Report non dice è che l'AVPN non ha accettato il forno elettrico, ha accettato l'uso del forno elettrico dei propri sponsor. Non ci sono caratteristiche che un forno deve rispettare enunciate nel disciplinare, c'è solo il nome da cui si può acquistare.

Il passaggio non è da poco perché ottenere l'autorizzazione per istallare un forno a legna all'estero è molto complicato, più semplice virare verso l'elettrico, portando grandi guadagni ai produttori. Dal punto di vista organolettico non c'è alcuna differenza tra i due forni perché "la combustione dei ciocchi di legno non serve a cuocere la pizza, ma serve solamente a portare a temperatura le pareti del forno. La cottura avviene per irraggiamento, conduzione e convenzione.

Si parla molto delle nuove tecniche di cottura della pizza. Si parla di sostituire la legna con altre forme energetiche come gas o resistenze elettriche. Non c'è nulla di contrario, il legno è solo una forma di energia. Se usassi un'altra forma di generazione di energia in grado di creare lo stesso profilo di temperatura all'interno del forno, questo porterebbe a una cottura della pizza analoga a quello del forno a legna. La legna non fornisce alcun aroma alla pizza. Fornisce solo energia: la legna non arde, si tratta solo di carbone adatto a tenere un profilo di temperatura costante" come spiega il professor Masi. Anche il passaggio sulla farina fa discutere, con la miracolosa "ricetta della farina" del nonno, ritrovata dal titolare di un noto mulino. Affermare che la pizza sia sempre stata fatta con la 00 è malafede per chi è del campo: questa tipologia di farina esplode solo nel dopoguerra, con i macchinari importati in Italia grazie al Piano Marshall.

C'è stato poi il "doveroso" passaggio da Crazy Pizza, la discussa catena di pizzerie di Flavio Briatore, con tanto di scontrino evidenziato per il prezzo delle portate: Iovene chiama a supporto Barbara Guerra e Albert Sapere, due dei curatori di 50 Top Pizza, per recensire in anonimato il prodotto dell'ex team manager Renault. I due critici non sono per nulla soddisfatti e bocciano il prodotto mentre Briatore batte tutto sulla sua macchina da scrivere invisibile, ringraziando per l'ulteriore pubblicità gratuita.

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