Il vino siciliano torna alla riscossa dopo lo stop commerciale dovuto alla pandemia. Lo fa sfoderando i due cavalli di battaglia della Doc Sicilia, i vini a base Grillo e Nero d'Avola. Si punta a una vitivinicoltura sempre più green anche grazie al protocollo SOStain e a una futura bottiglia made in Sicily che non peserà più di 500 grammi. Infine gli assaggi che ci hanno convinto di più.
Il brand "Sicilia" nel mondo del vino cresce di pari passo al successo turistico dell’intera isola. Tra le mete più gettonate del turismo mondiale, la Trinacria – nome negli atlanti di un tempo – è ambita anche per l’ampia offerta enogastronomica, all’interno della quale le etichette made in Sicily giocano un ruolo fondamentale. In particolare nella classifica dei vini top, cioè quelli più venduti in assoluto nell’anno in corso, il Nero D’Avola si piazza al 9° posto, mentre il Grillo occupa l’11°, ma risulta essere la tipologia con il maggior tasso di crescita, con un aumento superiore al 17 % rispetto al 2020. Non a caso parliamo di due vitigni autoctoni per raccontare la ripartenza del vino siciliano, dopo lo stop legato alla pandemia e alla conseguente contrazione delle vendite soprattutto nei canali Horeca, ovvero ristoranti, wine bar ed enoteche. Grillo e Nero D’Avola sono le due uve scelte dalla Doc Sicilia per rappresentare il mondo vitivinicolo regionale nel mondo (non più Igt dal 2017).
La Denominazione di origine controllata Sicilia viene ufficialmente riconosciuta il 22 novembre 2011 con Decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. L’anno seguente, nel 2012, nasce il Consorzio di Tutela Vini Doc Sicilia con o scopo di tutelare, promuovere, valorizzare, informare il consumatore e curare gli interessi generali della Doc Sicilia. Parliamo del più grande vigneto d’Italia, tre volte più grande di quello della Nuova Zelanda, più grande di quello sudafricano e grande quanto l’intero vigneto tedesco. In meno di 10 anni i numeri raccontano la storia di un successo: oltre 23 mila ettari rivendicati, quasi 500 imbottigliatori, più di 90 milioni le bottiglie prodotte nel 2020, con un leggero calo registrato nel 2021. “Ora è il momento di potenziare le attività di promozione – ha spiegato Antonio Rallo, presidente della Doc Sicilia e lui stesso produttore con il marchio Donnafugata – e lo stiamo facendo nei paesi dove i consumi sono rimasti stabili come gli Usa, il Canada e la Germania. Al contempo puntiamo ad altri mercati, come quello della Cina dove i segnali di crescita sono incoraggianti”.
Anche qui i numeri ci danno una mano per capire di cosa parliamo quando utilizziamo la parola sostenibilità legata alla produzione enologica dell’isola: la Sicilia, con 30.084 ettari, è la prima regione per viticoltura biologica in Italia, andando a coprire il 34 % della superficie vitata italiana coltivata in biologico. Più di un decimo delle etichette con fascetta Doc Sicilia sono green. Tenendo conto anche della coltivazione in lotta integrata – che non necessariamente richiede una certificazione, ma adotta sistemi poco invasivi di coltivazione – arriviamo al 50% del vigneto del Paese. Una scelta avallata dalla nascita della Fondazione SOStain, un ente che ha affiliato, per ora, 24 aziende siciliane che hanno adottato un protocollo integrato di sostenibilità. “Il cuore dell’impegno – ha raccontato il presidente Alberto Tasca – è nella condivisione delle best practices che ciascun produttore pone in essere, seguendo un decalogo di requisiti da rispettare. Solo al raggiungimento ottimale di queste dieci pratiche si può ottenere la certificazione SOStain”. Compito, questo, che toccherà a un ente certificatore esterno, la società norvegese DVN.
Tra questi parametri troviamo la misurazione della water footprint e della carbon footprint, il controllo del peso della bottiglia, la conservazione della biodiversità floristica e faunistica, fino alla valorizzazione del capitale umano e territoriale, al risparmio energetico e alla salute dei consumatori. “Il tema del peso della bottiglia è per la maggior parte dei consumatori una questione secondaria – ha sottolineato Tasca – e molti ancora ritengono che un maggior peso corrisponda una maggiore qualità del vino. Niente di più falso. Per questo motivo come Fondazione e Doc Sicilia, stiamo lavorando a un ‘contenitore in vetro tutto siciliano', con materiale e lavorazione del posto, per una bottiglia che non dovrà pesare più di 500 grammi”. Secondo il proprietario dell’azienda Tasca d’Almerita è arrivato il momento di lavorare a un concetto di umanesimo ecologico, dove uomo, natura ed economia si saldano su una volontà non più estrattiva ma generativa: “Sì, è giusto includere anche l’economia, perché la sostenibilità ha un valore economico e può aiutarci a vendere meglio i nostri vini”.
Una conta precisa di quanti vitigni autoctoni siano presenti sull’isola più grande del Mediterraneo è impresa quasi impossibile, ma la Regione sta lavorando su oltre 70 varietà autoctone evolutesi in 2.500 anni di viticoltura e delle quali solo una decina però sono quelle comunemente coltivate (ma che per diversità di ambientazioni hanno dato vita alla vendemmia più lunga d’Italia: più di 100 giorni). A voler cercare una data di inizio, potremmo ricondurla alla presenza dei Fenici in Sicilia – tra VIII e il VII secolo a.C. – abili navigatori e mercanti a cui si deve l’introduzione della vite e della vinificazione, nonché della commercializzazione. Si va da zero – fronte mare – a 1100 metri di altezza – le coltivazioni sul Monte Etna – per diversità altimetrica dei vigneti; cambiano i valori pluviometrici, così come i paesaggi che sono per lo più collinari – 62%, la percentuale più alta in Italia – e in parte anche montani – 24% della superficie vitata, la seconda in Italia. C’è poi una viticoltura di mare, non solo per la presenza di larghe estensioni vitate lungo le coste, ma soprattutto perché la viticoltura è presente sulle isole minori: infatti si fa vino nelle Egadi, nelle Eolie e a Pantelleria. La geologia di tutti questi terreni è altrettanto ricca: sabbie, calcare, argille, suoli vulcanici che, tutti insieme, costituiscono il territorio vitivinicolo più grande in Italia.
È l’uva alla riscossa del patrimonio ampelografico siciliano, di certo non la più piantata; infatti sull’isola il vitigno più diffuso è il Catarratto, anche detto Lucido ( per renderlo più memorizzabile). Di fatto, proprio il nome non facilmente pronunciabile di quest’uva l’ha resa una candidata poco papabile allo scettro di uva bianca dell’isola. Inoltre il Catarratto, rispetto al Grillo, si caratterizza per una maggiore neutralità nei profumi e negli aromi e, per questo, è considerato anche meno accattivante per una platea di consumatori internazionali.
L’anno di nascita del Grillo, frutto di un incrocio tra Catarratto e Zibibbo, sarebbe il 1874. Il padre di questo vitigno è il barone Antonino Mendola, un ampelografo originario di Favara, in provincia di Agrigento, culla dunque anche della prima piantina di quest’uva che, all'epoca, fu battezzata come Moscato o Catarratto Cerletti (ne esistono ancora alcune varietà nella biblioteca ampelografica di Montpellier) in onore dell'allora direttore della Stazione enologica di Gattinara. L’incrocio non avvenne a caso: lo studioso cercava un vitigno più aromatico per il Marsala, ovvero per quello che era uno dei vini più famosi al mondo e che stava facendo la fortuna di molte famiglie siciliane e inglesi.
Oggi sono due i biotipi più diffusi: il tipo A, più fresco, con aromi che rimandano a frutti e fiori delicati; il tipo B, più potente e alcolico e dai profumi più intensi. Gli ettari dedicati a quest’uva sono circa 8mila – nel 2004 erano 2300 – e sono in crescita anche il numero di bottiglie a base Grillo, con un 23 per cento in più nel 2021 rispetto all’anno precedente.
In occasione dell’evento dedicato ai due vitigni principali della Doc Sicilia, abbiamo avuto modo di assaggiare molte etichette prodotte con uva Grillo. Quella che segue è la lista dei nostri dieci preferiti:
Da uva coltivata un tempo soprattutto nell’areale del Siracusano, oggi il Nero d’Avola è di certo l’uva rossa più diffusa nell’isola – quasi 15 mila ettari – ma anche la più conosciuta fuori dai confini siciliani. I territori che ospitano più ettari sono quelli delle province di Agrigento e Caltanissetta e il numero totale di bottiglie si aggira intorno ai 50 milioni (più della metà del totale delle etichette Doc Sicilia). Il Nero d’Avola ha una elevata capacità di accumulo degli zuccheri, ma al contempo ha una buona tenuta dell’acidità totale, un tannino abbastanza robusto e un colore intenso. Nel registro nazionale delle varietà è segnalato anche come Calabrese, perché storicamente inserito in un gruppo di uve accorpate per somiglianza di profumi, alcol e colore. In scritti storici si trova anche il nome Calaulisi che sta per uva di Avola e si racconta come questa proveniente delle zone anche di Pachino e Vittoria prendesse la strada della Borgogna come uva da taglio.