Insieme a Fabrizio Fiorani, miglior pasticciere d'Asia per la Word's 50 Best, andiamo alla scoperta dei 12 dolci imperdibili della pasticceria giapponese ma non solo. La storia del wagashi, la filosofia che c'è dietro i dolci in Giappone. "Le pasticcerie tradizionali producono delle mini opere d’arte fatte a mano, è incredibile" ci dice il pastry chef.
La pasticceria giapponese è un argomento molto discusso nel mondo della gastronomia. La cura per i dettagli, l'uso ridotto dello zucchero, le forme geometriche ricercate, rendono i dolci nipponici perfetti per l'alta cucina, ma c'è di più. Siamo andati alla ricerca dei 12 dolci imperdibili del Giappone e della loro storia.
Tutto ciò che riguarda il Sol Levante sembra essere circondato da una leggerezza sofisticata e da un profondo senso dell’estetica. Pensiamo agli origami, alla grafia, ai templi. La stessa cucina nipponica è aggraziata nell’aspetto e nel sapore in ogni sua portata ma, arrivati al dolce, l’argomento diventa un po’ particolare. Non perché i dolci non siano leggiadri, ma le preparazioni tradizionali giapponesi sono abbastanza strane per i gusti a cui siamo abituati.
Per parlare della pasticceria giapponese ci siamo rivolti a un esperto, Fabrizio Fiorani, il miglior pasticciere d’Asia per la Word’s 50 Best, un risultato ottenuto quando era pastry chef nei ristoranti Bulgari a Tokyo e Osaka. Fiorani, romano doc, ha lavorato anni in Giappone prima di tornare in Italia e oggi, tra le altre cose, è il pastry chef di Ciccio Sultano, cuoco 2 Stelle Michelin.
Fiorani ci ha spiegato che "nella pasticceria c’è un mix tra l'estetica, lo stile e il gusto, in quest’ordine: Wagashi o Moshi non hanno un gusto così predominante. La questione è nella forma, nella consistenza, nella confezione in cui viene venduto il dessert. La forma è metà della sostanza in questo caso. Tutti i grandi partner store o le pasticcerie tradizionali producono delle mini opere d’arte fatte a mano, dei fiori piuttosto che delle forme geometriche, è incredibile".
Questo stile nominato da Fiorani è riferito alla pasticceria tradizionale giapponese. Si tratta di una vera e propria forma mentis: l’obiettivo è utilizzare prodotti vegetali per ottenere consistenze sorprendenti. L’aspetto è fondamentale: basi neutre devono essere modellate e decorate diversamente in base alle ricorrenze, con delle caratteristiche precise e distinguibili legate alle varie festività. Altro punto fondante della cultura wagashi è l’utilizzo di pochissimo zucchero e il servizio esclusivamente in monoporzione, ognuna curata fino all’esasperazione.
Gli ingredienti base di queste preparazione sono lo zucchero di canna, i fagioli azuki, la farina di riso o di grano, il kudzu (una pianta selvatica rampicante) o, in alternativa, l’agar-agar per ottenere le gelatine. Le preparazioni risalgono a oltre 200 anni fa perché tutti i dolci introdotti dopo il Rinnovamento Meji del 1868 non sono da considerare originali wagashi.
Grazie ai ritrovamenti degli scavi su numerose isole dell’arcipelago giapponese sappiamo che i dolci fanno parte della dieta quotidiana degli abitanti da tanti secoli.
A seconda delle epoche, la società ha consumato diverse tipologie di dolci: partiamo dalla tradizione Tang, che metteva al centro del mondo dolciario la farina di riso fritta nell’olio e l’ebollizione del succo d’uva usato al posto dello zucchero.
Grazie alle opere mitologiche sappiamo che la biscotteria è una pratica millenaria e che, dal 1191, i dolci sono stati usati soprattutto per accompagnare la cerimonia del tè. Come facciamo ad avere una data così precisa? Innanzitutto perché la burocrazia nipponica già in età medievale era all’avanguardia e poi perché a questa data risale la descrizione di Eisai, il sacerdote zen che ha portato i semi del tè a Kyoto . Prima di questo episodio, il tè in Giappone veniva stato usato solo nelle cerimonie mistiche oppure in ambito medico: da questo momento in poi inizia a diventare d'uso comune.
La pasticceria giapponese ha fatto un enorme passo in avanti nel 1500 con l’arrivo degli europei e l’apertura degli scambi commerciali tra Oriente e Occidente. Questo ha portato all’impennata della coltivazione di canna da zucchero, per un prodotto usato con parsimonia ancora oggi.
Lo zucchero in Giappone è così poco usato perché storicamente legato ai riti religiosi: un prodotto che, nella sua immensa dolcezza, doveva essere donato alle divinità. La storia è anche legata al colore: secondo la tradizione giapponese il bianco è anche il colore delle divinità e della sacralità, simboleggiando l'assenza di impurità. In generale, il colore bianco va a indicare qualcosa di buono e positivo, di purezza, oltre ad avere il significato di distinto, limpido, chiaro.
Dopo il 1868 con il Rinnovamento Meji tutta la fisionomia del Giappone cambia radicalmente, sia nella gastronomia che negli altri ambiti: ma la tradizione wagashi è tutt’oggi molto diffusa con alcuni dolci iconici e molto saporiti.
I magnifici 12, come una squadra di calcio con il pubblico dalla sua ad esultare. La pasticceria giapponese nella sua semplicità di sapori ha prodotto alcune perle che tutti dovrebbero assaggiare.
Non possiamo che partire da qui, il dolce giapponese più famoso al mondo (anche) grazie all’anime di Doraemon, il gatto spaziale diventato famoso negli anni ‘90. Si tratta di un piatto semplice e gustoso composto da due soffici pancake che racchiudono una farcitura di anko, ottenuta con i fagioli azuki.
Originariamente i dorayaki erano composti da un solo strato: fu Ueno Usagiya, un pasticciere di Tokyo, a raddoppiare la golosità nel 1914 nel suo laboratorio. Attualmente la pasticceria, che prende il nome del fondatore, è ancora in attività e secondo i giapponesi qui si preparano i migliori dorayaki del Paese.
Sono molto carini vero? Sono anche gustosi perché, di fatto, si tratta di riso glutinoso su uno spiedino. Ogni polpettina va guarnita a seconda delle ricorrenze e si presenta in tre colori dovuti alla materia prima utilizzata: il rosso con i fagioli, il bianco con le uova e il verde con il tè.
Come si deduce dal nome, questo dessert è moderno e rinfrescante. Il gelato al tè matcha è stato il fiore all’occhiello dell’Imperatore Meiji Tennō e della sua Restaurazione: ogni pranzo di gala terminava con questa portata di ghiaccio tritato e tè matcha posto in modo tale da ricordare il Monte Fuji. Oggi la parte rituale si è persa e il green tea ice cream si può trovare nelle classiche confezioni gelato del supermercato.
Dolce fusion nippo-cinese, antichissimo e con soli 4 ingredienti: fagioli azuki, farina, riso in polvere e grano saraceno. I manjū derivano dai mantou cinesi portati in Giappone nel 1341. Le polpettine di grano saraceno devono essere bollite e qualcuno azzarda versioni all’arancia, al tè verde e allo sciroppo d’acero. Sono molto apprezzati nel Sol Levante per il sapore dolciastro ma anche per il bassissimo prezzo di costo e di vendita. Come all’inizio del secolo scorso ancora oggi si possono trovare in giro per Osaka tanti carrettini specializzati nella vendita di manjū.
Eh sì, anche i giapponesi friggono. Questa ricetta è molto semplice e gustosa: basta amalgamare farina, zucchero e uova come con una polpetta e calare la pallina nell’olio bollente. Il nome non sembra giapponese vero? Avete ragione, questo dolce risale al 1500 con l’arrivo dei pellegrini portoghesi: tant’è che in Portogallo esiste una preparazione identica che si chiama malasada. I sata andagi sono tipici di Okinawa e, per essere perfetti, devono diventare croccanti all’esterno pur mantenendo un cuore soffice.
Uno dei dolci più comuni del Giappone particolarmente legato alla tradizione dello shōgatsu, il capodanno giapponese. Si tratta di riso glutinoso, tritato e pestato fino a ottenere una pasta bianca, morbida e appiccicosa che viene poi modellata in una tipica forma tondeggiante, come se fosse un panino. Si può mangiare anche vuoto, come un cornetto, ma di solito è farcito con marmellata.
Abbiamo visto i mochi, vediamo anche una delle loro varianti: il warabimochi è il mochi dell’estate, viene presentato a cubetti morbidi e si farcisce con matcha, sesamo e sciroppi. La preparazione di base è leggermente diversa dal mochi tradizionale, perché il riso è sostituito dall’amido e dalla pasta di soia precedentemente tostata.
Semplicemente dei fagioli ricoperti di zucchero, niente di complicato. Inventati da Hosoda Yasubei nella seconda metà dell’800, perché voleva rendere il suo chiosco unico in tutta Tokyo e attirare i clienti. L’operazione del pasticciere è più che riuscita, perché il negozio è ancora in attività. A dispetto del nome non ha nulla in comune con il nattō, un piatto di fagioli di soia fermentati che Anthony Bourdain, uno che di cose strambe ne ha assaggiate, ha definito come una delle pietanze peggiori mai provate.
Il dolce tipico di Kyoto: una sfoglia croccante cotta a forno con riso, zucchero e cannella. Molto golosa la variante nama, ovvero a raviolo: stesso impasto ma farciti con varie preparazioni. Rispetto agli altri dolci citati risalta la parte zuccherina dell’impasto, si tratta di un dolce molto più appetibile per i palati occidentali.
Tra i ritrovamenti degli scavi di Okinawa di cui abbiamo parlato i chinsuko sono stati molto ricorrenti: si tratta di biscottini da tè antichissimi, cotti a forno, con un impasto a base di farina, zucchero e strutto (una vera rarità per il Giappone).
Finalmente parliamo di una torta: una sorta di pan di Spagna preparato con farina, uovo, zucchero e sciroppo di amido. Questo dolce è diventato col tempo un popolarissimo street food in Giappone, Corea e Taiwan, servito in panetti rettangolari da 27 centimetri. Ma può un dolce giapponese chiamarsi castella? Torniamo nuovamente nel XVI secolo con i missionari portoghesi che raggiungono Nagasaki. Questa torta spumosa è la copia del pão de Castela portoghese, il pan di Castiglia.
Ci troviamo di nuovo di fronte a una sorta di panino: l'anpan è lo spuntino preferito di tutti i bambini. Questo dolce è stato inventato nel 1875 da Yasubei Kimura, un ex samurai diventato pasticciere. L’uomo dopo aver studiato le tecniche dai maestri panificatori di Yokohama fonda un panificio a Tokyo e crea un suo pane, più adatto ai gusti dei giapponesi, seguendo le tecniche di preparazione dei manju.
Una volta ottenuto il panino lo riempie con la pasta di fagioli azuki e lo fa assaggiare ai vicini. Un successone anche perché gli anpan arrivano sulle tavole dell’Imperatore che ne rimane folgorato, ordinando un approvvigionamento giornaliero di anpan da Yabusei. La notizia esce ben presto dal palazzo e il popolo, incuriosito dalla cosa, si fionda al chiosco del samurai pasticciere per acquistare gli snack. Oggi gli anpan sono farciti anche con una crema di fagioli bianchi, con una crema al sesamo o con delle noci.
La cultura giapponese è molto chiusa nella propria tradizione, ma si tratta di un popolo molto curioso sul piano culinario. Nei viaggi all’estero, a differenza degli italiani ad esempio, mai si sognerebbero di mangiare in un sushi bar occidentale.
Fabrizio Fiorani ci spiega che il luogo comune del palato giapponese diverso da quello degli occidentali è ormai superato. Nel corso degli anni nei suoi ristoranti i giapponesi hanno imparato ad apprezzare il suo lavoro e "i miei dolci potevo proporli a Tokyo, a Parigi, a Roma o a New York. La cosa fondamentale è far capire l’idea della pasticceria italiana contemporanea. La questione legata allo zucchero va applicata a tutti i palati, è importante il bilanciamento nelle ricette di base, non la quantità di ingredienti. I dolci che facciamo da Ciccio Sultano in Sicilia li possiamo proporre identici a Dubai oppure a Kyoto".
Il grande pastry chef ci racconta anche una cosa che ha notato in Giappone e che è diventato il marchio di fabbrica di Fabrizio Fiorani: "I giapponesi apprezzano molto la possibilità di interagire col dessert. Il compito del pasticciere in Giappone, e penso lo sia in tutto il mondo, è di catturare l’attenzione col sorriso oppure con un richiamo, un gioco. Al ristorante scrivevamo frasi, abbiamo proposto l’arte di Hokusai sui cioccolatini, o ancora spunti di riflessione per terminare in bellezza una cena".