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9 Aprile 2025 18:00

La dieta africana meglio di quella occidentale: i punti oscuri dello studio pubblicato su Nature

Una ricerca pubblicata su Nature a cui ha contribuito anche una squadra di scienziati italiani "dimostra" che la dieta africana protegge da infiammazioni e malattie cardiovascolari rispetto alla dieta occidentale ma ci sono diversi fattori che non ci convincono di questo studio.

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Secondo uno studio internazionale pubblicato su Nature Medicine, a cui ha partecipato anche l'Università di Firenze e l'Azienda ospedaliero-universitaria Meyer del capoluogo toscano, la dieta tradizionale africana può ridurre le infiammazioni e rafforza le nostre difese immunitarie contro gli agenti patogeni rispetto a una dieta occidentale. Il risultato evidenzia l’impatto di diversi tipi di dieta alimentare sul sistema immunitario e sul metabolismo dopo 6 settimane di cambio di dieta. In realtà ci sono delle cose che non tornano in questo studio e, pur tenendo presente l'assoluta affidabilità di Nature che è una delle riviste scientifiche più prestigiose del mondo, c'è qualcosa che non torna.

In che modo una dieta africana può essere migliore rispetto a una dieta occidentale

Alla ricerca, coordinata dall’Università di Njimegen (Paesi Bassi) e dal Kilimanjaro Christian Medical University College (Tanzania) hanno partecipato 77 uomini in buona salute, residenti in Tanzania, sia in città sia in zone rurali: per un periodo di due settimane alcuni partecipanti che seguivano una tradizionale dieta africana (che include molte verdure, frutta, fagioli, cereali integrali e cibi fermentati) sono passati a una dieta occidentale, mentre altri che nei centri urbani mangiavano una dieta occidentale hanno adottato per lo stesso periodo una dieta africana tradizionale. Un terzo gruppo ha consumato ogni giorno una bevanda di banana fermentata (contenente lieviti e lattobacilli) e dieci partecipanti, come gruppo di controllo, hanno mantenuto la loro dieta abituale.

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Il passaggio a una dieta occidentale ha contribuito a uno stato pro-infiammatorio e ha influenzato negativamente diversi percorsi metabolici associati a malattie non trasmissibili, come il diabete e le malattie cardiovascolari. Al contrario, il ritorno a una dieta tradizionale e il consumo di mbege hanno avuto effetti antinfiammatori. Alcuni dei cambiamenti positivi nei profili immunitari e metabolici sono persistiti anche dopo la fine dell'intervento, suggerendo benefici a lungo termine. Lo mbege è una bevanda tradizionale della tribù Chagga, preparata con banane fermentate e miglio. La fermentazione arricchisce la bevanda di metaboliti e microbi bioattivi, come il Saccharomyces cerevisiae e i lattobacilli, noti per i loro effetti benefici sulla salute.

La ricerca, secondo i ricercatori Duccio CavalieriPaolo Lionetti "nasce da una nostra idea sviluppata nell’ambito del progetto Transmic e mira a stabilire la relazione causale tra alimentazione, microbiota intestinale e salute dell'uomo utilizzando popolazioni africane esposte a diete tradizionali o globalizzate come modello". "La sperimentazione – concludono i ricercatori -, alla quale abbiamo contribuito anche con l’analisi e interpretazione dei dati e degli aspetti nutrizionali, segnala i potenziali rischi per la salute associati all’abbandono delle diete tradizionali, sempre più frequente in Africa, ma mostra anche quanto possa essere dannosa per noi occidentali una dieta composta perlopiù da cibi lavorati e ipercalorici".

Oltre l'entusiasmo: un'analisi critica dello studio

Abbiamo provato a contattare l'Università di Firenze per chiedere delucidazioni, senza ottenere risultati. Le delucidazioni che chiediamo riguardo lo studio sono dettate da alcune perplessità emerse leggendo la ricerca perché, pur riconoscendo l'importanza di studiare le interazioni tra dieta e salute, è doveroso analizzare criticamente la ricerca in questione, evidenziandone alcune limitazioni.

In primo luogo, l'espressione "dieta occidentale" è un concetto intrinsecamente vago, privo della necessaria specificità scientifica. Non esiste, infatti, un modello alimentare unico che possa essere universalmente etichettato come "occidentale"; le abitudini alimentari presentano una notevole varietà tra i diversi Paesi occidentali e persino all'interno dei confini di una singola nazione. La definizione utilizzata nello studio, che include cibi fritti, farine raffinate e un elevato consumo di proteine animali, non rende giustizia alla complessità e alla diversità delle diete presenti nel mondo occidentale, tralasciando elementi cruciali come l'apporto di frutta, verdura e cereali integrali. È possibile che si tratti di una traduzione superficiale e che faccia riferimento alla "Western pattern diet (WPD)" o "standard American diet (SAD)", in pratica la cucina nordamericana che a differenza di quella mediterranea non ha prodotti tipici, radici col territorio ed è caratterizzata da un largo consumo di prodotti di origine animale. Il concetto è così ampio che a volte ci accorgiamo delle differenze tra Nord e Sud Italia, figurarsi col resto dell'Occidente.

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Un confronto tra le diete contenuto nella ricerca

Anche la dimensione del campione, limitata a 77 volontari di sesso maschile, solleva interrogativi sulla validità statistica dei risultati e sulla loro applicabilità a popolazioni più ampie e diversificate. Un campione così ristretto potrebbe non essere rappresentativo della variabilità genetica, culturale e ambientale che caratterizza le diverse popolazioni umane. Uno studio, per essere attendibile, deve coinvolgere un gruppo di persone che rispecchiano le caratteristiche della popolazione generale a cui si vogliono applicare i risultati. Se lo studio riguarda gli effetti di una nuova dieta sugli adulti, il campione non dovrebbe essere composto solo da uomini. Non esiste un "numero preciso" di persone "minime" per fare uno studio ma 77 individui è sicuramente un campione esiguo, soprattutto se si parla di sistemi giganteschi come "dieta africana", un continente sfaccettato che coinvolge quasi un miliardo e mezzo di abitanti: parliamo dello 0,000005525% della popolazione continentale, una percentuale insignificante. Anche la durata, due settimane, solleva dubbi sulla possibilità di osservare effetti a lungo termine sulla salute, soprattutto per quanto riguarda patologie complesse come le malattie cardiovascolari, il cui sviluppo è il risultato di un'esposizione prolungata a fattori di rischio dietetici. Addirittura si parla di influenze negative su diabete e malattie cardiovascolari, dopo sole due settimane di somministrazione.

La cosa che più ci ha fatto storcere il naso, infine, è la comparabilità nutrizionale dei gruppi di alimenti presi in esame. Le diete tradizionali africane, spesso caratterizzate da un elevato contenuto di fibre, vitamine e minerali, si discostano marcatamente dalle diete nordamericane, che tendono ad essere più ricche di grassi saturi, zuccheri raffinati e sale. Tale disparità potrebbe aver introdotto un bias nei risultati, rendendo difficile isolare gli effetti specifici di ciascun tipo di dieta. In tal senso, la metodologia dello studio avrebbe beneficiato di un'attenta valutazione e di un preciso controllo dell'apporto calorico e dei macronutrienti nei diversi gruppi, al fine di garantire una maggiore equità e precisione nei confronti. Sarebbe stato interessante vedere un confronto tra due gruppi di alimenti uguali, provenienti da due continenti differenti, come due legumi ad esempio o due verdure. Finché compariamo il porridge alle salsiccette va da sé il problema.

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