Quasi due mesi di corso all'interno del carcere di Brescia su come realizzare la pizza. Dall'ombra del Vesuvio alla Lombardia, Ciro Di Maio da docente a datore di lavoro: assumerà infatti un corsista nel suo locale.
Da Napoli a Brescia, dove in un corso dedicato ha appena insegnato ad alcuni detenuti a fare la pizza. È il progetto, e la storia recente, di Ciro Di Maio: maestro partenopeo dell'arte bianca emigrato al nord, dove oltre ad aver avviato un proprio locale dallo scorso febbraio ha accolto una docenza particolare, a scopo inclusivo e sociale. Presso il carcere locale Ciro è stato un professore d'eccezione, avvicinando alcuni corsisti (colpevoli di reati minori) verso il suo mondo. Quello della pizza. Della pizza fatta bene, per quanto possibile all'interno della mensa (seppur ben attrezzata) di un carcere.
Un progetto sociale al quale Ciro ha creduto fin dall'inizio, sin da quando nel 2019 era già stato pensato ma poi bloccato causa Covid. Assieme a lui dietro tutto questo anche Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, e sostenuto dalla direttrice del carcere stesso, Francesca Paola Lucrezi. Dopo lo stop forzato per la pandemia all'inizio di quest'anno il tutto è ripartito e il pizzaiolo di origine napoletana, per due volte a settimana, si è recato nel carcere di Brescia per insegnare ai suoi allievi d'eccezione l'arte dell'impasto. Non ci sarà il forno a legna, ma poco importa. Lo scopo solidale e inclusivo supera, in questo caso, una cottura che non sarà proprio come quella di un'autentica pizzeria. Come quella che gestisce lo stesso Ciro proprio a Brescia.
Parlando con Ciro scopriamo in realtà come tutto questo nasca ben prima del 2019. Almeno a quando, ancora a Napoli, era il padre dello stesso Ciro a essersi fatto artefice di un progetto rivolto al recupero di tossicodipendenti e persone più sfortunate. "Poi quando mio padre è è venuto a mancare ho cercato di gestire il tutto in autonomia. Lui ci teneva a questi ragazzi e il suo obiettivo era quello di poterli togliere dalla strada e riabilitarli agli occhi della società. Quindi ho deciso di riprendere mano questo progetto e di portato a Brescia, dove lavoro. Ad aiutarmi c'è mio fratello: assieme a lui abbiamo insegnato sia teoria sia parte pratica, facendo fare le pizze ai ragazzi, con buoni risultati devo dire".
Un'esperienza che, se non cambia la vita, quantomeno la visione che si ha poi di questi ragazzi. "Devo ammettere come prima di questo corso non vedevo quei detenuti con gli stessi occhi di oggi – confessa Ciro – ma più con distacco, come una sorta di peso per la società. Ed effettivamente quello possono esserlo nel caso in cui non riuscissero a riabilitarsi, reinserirsi". La formazione in questo senso può essere determinante per loro: "Nel momento in cui imparano qualcosa e diventano risorse cambia totalmente la prospettiva, nonché le loro possibilità una volta scontata la pena".
In tutto ciò, però, come è stato il primo impatto con i detenuti del carcere di Brescia? Cosa c'è stato nelle battute iniziali dei due mesi di corsi svolti all'interno dell'istituto? "Entrare in un carcere fa sempre un certo effetto – dice Ciro – e anche se in un primo momento c'è stata della fisiologica freddezza dovuta anche all'ambientamento, non mi aspettavo poi tutto questo entusiasmo da parte dei ragazzi. Ho sempre percepito la voglia di vedersi, oltre alle ore di lezione c'era la volontà di scambiare qualche parola anche nei momenti di pausa, di fumarsi in compagnia una sigaretta magari al termine della lezione. È stato paradossalmente questo l'aspetto che mi ha colpito di più di tutto il corso: mentre insieme fumavamo una sigaretta loro si confidavano, considerandoti quasi come un vero amico. Riuscivano ad aprirsi totalmente, parlando delle loro difficoltà, sogni e aspirazioni".
Detto ciò come si è svolto il corso? Quaranta ore di lezione teorica, due appuntamenti a settimana prima di passare alla pratica. Qui altre ore fin quando : "…non è stato raggiunto un risultato soddisfacente. Siamo arrivati a fare tre quattro tipi di pizza con altrettante tipologie diverse di impasto. Il tutto nella cucina del carcere, con un forno elettrico di ottima qualità, così come tutte le altre attrezzature messeci a disposizione".
Lezioni a parte, durate un paio di mesi, e parlando di reinserimento concreto, Ciro sta lavorando attivamente per introdurre nel proprio locale almeno uno dei suoi 12 corsisti. "In verità abbiamo già individuato delle persone, adesso dobbiamo fare dei colloqui con il carcere per farle venire a lavorare nel mio locale una volta scontata la pena. Uno già l'abbiamo individuato, ora cerchiamo anche di inserirne altri, magari segnalandoli e distribuendoli anche in diversi locali della zona".
Negli ultimi anni in varie parti d'Italia si sono sviluppati altri progetti del genere. All'interno di carceri iniziative simili, con il cibo protagonista, si sono diffuse al punto da diventare parte integrante dell'istituto di detenzione. Solo per fare degli esempi a Rebibbia si è tenuto un corso per diventare sommelier, così come è stata aperta una mini gastronomia. A Padova i detenuti realizzano un super panettone, mentre a Palermo il progetto sociale punta tutto sui dolci.
Che valore può assumere il cibo, e tutto ciò che gli ruota attorno, nel percorso di riabilitazione dei detenuti? "Il cibo può essere un valido strumento per il reinserimento nella società. Il cibo lo viviamo tutti i giorni e può rappresentare una bella occasione anche di riscatto, qualcosa in grado di far staccare la spina per qualche ora, a non pensare a tutto il contesto intorno. Con le proprie mani si può creare, fare sempre qualcosa di nuovo e questa credo sia una motivazione in più per cui il cibo può essere uno strumento di riscatto sociale e personale".