Alcune canzoni le conoscono tutti, napoletani e non: "Tu vulive 'a pizza, 'a pizza, 'a pizza, ca pummarola n'goppa", scommettiamo che l'avete letta cantando. Ci sono però decine di esempi, dal Cinquecento in poi, che portano la cucina tradizionale partenopea nella canzone classica napoletana. Un esempio unico nel suo genere.
C'è uno strano rapporto che risale al Cinquecento tra la canzone napoletana e il cibo. Napoli è una delle capitali gastronomiche italiane e il suo rapporto con la musica non è certo da meno, per molti grandi poeti è stato quindi naturale unire le due passioni più grandi della città. La relazione tra questi due temi è spesso un'allegoria della bellezza femminile, del carattere delle donne e del sesso, un'ambiguità presente anche nella lingua italiana e rimasta inalterata fino ai giorni nostri.
Tutta questa storia nasce dalle liriche del Medioevo e da Giovanbattista Basile, il padre della fiaba Occidentale, autore de "Lo cunto de li cunti". Nelle corti d'Europa spopolano i versi dell'autore giuglianese, accompagnati dalla "Villanella alla napoletana", una composizione con clavicembali, lire, tamburi, cetre e attori. La prima raccolta stampata risale al 1537 ma si ritiene essere molto più antica: qui si parla di una "voccuccia de nu pierzeco apreturo", in cui la bocca di una donna viene paragonata ad una pesca. Le composizioni sono però centinaia e citano frutta e verdura, bibite, pane e pizza ma soprattutto pesci e conchigliacei. La cosa interessante è che dalle liriche cinquecentesche alla canzone demenziale del III Millennio, il rapporto tra il cibo e la canzone napoletana è rimasto inalterato e ha seguito, passo passo, l'incedere del tempo e la contemporaneità della storia.
Abbiamo detto che tutto comincia nel Cinquecento, con cantate perlopiù giullaresche. Anni dopo, la comparsa delle liriche sulla scena musicale continentale nasce invece "Lo Guarracino", un'opera scritta alla fine del Settecento da un autore ignoto. Badate bene: questa può essere ritenuta la canzone più importante di sempre dal punto di vista scientifico. Si tratta di una vera e propria fiaba d'amore tra un guarracino, la comune castagnola, e una sardina, ex fidanzata di un tonnetto alletterato che, a causa della soffiata della patella, viene a sapere del nuovo amore e scatena una rissa tra avverse fazioni di pesci. La contesa si estende a tutto il Golfo di Napoli e nella canzone vengono citate innumerevoli specie di animali marini. Se ascoltate la versione di Roberto Murolo o della Nuova Compagnia di Canto Popolare ad un certo punto perderete il conto: come l'Eminem dei bei tempi il numero di parole e il tempo della musica diventano inversamente proporzionali. Ad elencare tutte le specie citate ci ha provato Benedetto Croce nel 1923 senza riuscirci, ci ha riprovato Arturo Palombi, uno dei biologi più importanti del secolo scorso; a riuscirci però è stata una sua allieva, Maria Cristina Gambi, individuando 51 specie che vanno dal calamaro al tonno, dalle orche ai lucci. Ma perché se ne sono interessati i biologi? Proprio perché è la canzone scientificamente più rilevante di sempre: grazie a questo componimento, gli studiosi sono riusciti a risalire ai metodi di pesca della Napoli borbonica e soprattutto a cosa mangiavano. Purtroppo gli zoologi hanno constatato anche che molte specie elencate nella canzone non sono più presenti nel Mediterraneo, perché estinte o perché la temperatura dell'acqua è diventata troppo alta portando a mutazioni genetiche.
Qualche anno più tardi arriva a Napoli il Cafè chantant, con i locali che diventano teatri in cui si mangia e balla sulla falsa riga della proposta parigina. La musica entra fattivamente in contatto con il cibo e uno dei padri di "O sole mio", Giovanni Capurro, scrive la prima canzone dedicata alla pizza: "O pizzaiuolo nuovo", una sonata che contiene la ricetta della Giardiniera, una sorta di antenata della Quattro stagioni.
Il grande exploit della canzone napoletana arriva con il 1900 però: capolavori famosi in tutto il mondo, autori che hanno fatto la storia della musica italiana portano la città partenopea sulle note di tutti i musicisti del globo. Sulla scia dei Cafè chantant arriva in scena Giuseppe Capaldo, un cameriere formatosi nella trattoria dei genitori, a pochi passi dal Molo Beverello. Capaldo è ossessionato dal cibo e dal suo lavoro, che svolge molto bene secondo le cronache dell'epoca. Secondo il cameriere poeta, la figura femminile e la cucina hanno moltissime cose in comune. Scrive così "Comme facette mammeta", una delle canzoni più famose del genere, opera in cui Capaldo "impasta" la bellezza delle donne: latte, fragole, acqua di rosa, zucchero, cannella "pe ‘mpasta sta vocca bella" (per impastare questa bocca bella). Capaldo non si limita al food, pensa anche al beverage e allora scrive "A tazza ‘e cafè", una canzone molto erotica in cui la sua amata viene paragonata a un espresso perché amara all'esterno e dolce nel profondo; stessa allegoria che userà anche Pino Daniele qualche anno più tardi.
Il cameriere poeta è stato di grande ispirazione per i suoi contemporanei e l'idea della donna idealizzata nel cibo piace molto a Libero Bovio, uno degli autori più prolifici del tempo, autore della celebre "Reginella", una donna che mangia "solo pane e cerase", ovvero pane e ciliegie. Questo passo, poetico ed erotico allo stesso tempo, nasconde una verità storica spesso sottovalutata: il pane con la frutta è un abbinamento molto in voga tra i napoletani dell'epoca perché molto nutriente ed economico.
Col boom economico arriva anche quello della canzone napoletana grazie alla genialità di Renato Carosone e alla simpatia di Gegè di Giacomo col suo "CantaNapoli". In una città che beve "whisky e soda" si eleva "Maruzzella", una donna chiusa, impenetrabile, che si mostra e poi si rinchiude in se stessa come i maruzzielli, ovvero le chiocciole di mare.
Con gli anni Sessanta si perde tutto quel romanticismo legato all'amore e al cibo: in tutto il mondo c'è senso di rivalsa, di rivoluzione, e Napoli non fa eccezione. Viene riscoperta la canzone popolare, il folk entra nelle case di tutti e non lo abbandonerà mai più. La Nuova Compagnia di Canto Popolare, una super band composta da Eugenio Bennato, Carlo D'Angiò, Roberto De Simone e Giovanni Mauriello ai quali si unirono Peppe Barra, Patrizia Schettino, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere e Nunzio Areni ruba la scena a tutti e porta le grandi opere in tutto il mondo. A loro si deve la famosa "Gatta cenerentola", un musical che ha fatto la storia e in cui è presente il famoso "2° Coro delle Lavandaie", una cantata in cui si racconta un sogno erotico molto spinto con continue similitudini per "nascondere" l'atto sessuale.
Ci sono due loro interpretazioni in particolare che portano in musica tutto il ben di Dio della cucina napoletana del tempo: la "Tammurriata nera" e la "Rumba de' Scugnizzi". Nel primo caso si tratta di una cover di una canzone scritta nel 1944 che racconta la storia di una donna che mette al mondo un bimbo nero, concepito con un soldato durante l'occupazione americana. L'intera vicenda è raccontata da una specie di "coro greco". Queste "anime", verso la fine dell'opera, elencano problemi accessori di una Napoli disastrata dalla guerra: "Aieressera magnai pellecchie, ‘e capille ‘ncopp"e recchie, e capille e capille e ‘o decotto ‘e camumilla… ‘O decotto,'o decotto e ‘a fresella cu ‘a carna cotta". Praticamente una delle donne racconta di aver mangiato scarti, una fresella con il soffritto (la "carna cotta" era la celebre zuppa delle zendraglie) e che il contrabbando l'ha salvata da morte certa per la fame ("si nun er' po' contrabbando, io mò già stev' ‘o campusant").
Per quanto riguarda "A rumba de' Scugnizzi" si tratta di trasposizione in musica della più centrale delle figure del teatro di Raffaele Viviani: lo scugnizzo appunto. La rumba degli scugnizzi riprende questa caratterizzazione, trovando efficace ambientazione in un colorito mercato napoletano, dove le voci dei venditori ambulanti si contrappongono agli schiamazzi dei girovaghi. Tratta dallo spettacolo "L’ultimo scugnizzo" ha visto in Massimo Ranieri, Sergio Bruni e proprio negli NCCP i massimi interpreti. Nel testo si odono le voci dei mercanti che cercano di vendere, in ordine: gamberi, scarola riccia, finocchi, aglio, la pizza fritta (o meglio ‘o battilocchio), peperoni, olive, cocco, castagne, angurie, panini, gelati, pizze, polpi, arachidi (o meglio ‘e nucelline americane) e grano per la pastiera. Una sequela di meraviglie cantate magnificamente da un coro univoco di scugnizzi.
L'unica eccezione a questa potente rivalsa tarantellara c'è nel 1966 con un insospettabile milanese e un duo di "nordici": Giorgio Gaber porta sul palco del Festival di Napoli "Tu vulive ‘a pizza", una canzone scritta da Alberto Testa con le musiche composte da Giordano Bruno Martelli. Un bergamasco, un genovese e un milanese che scrivono un omaggio al piatto partenopeo per eccellenza. La storia raccontata nella canzone gioca sui doppi sensi di un giovane innamorato pronto a fare follie per far colpo sulla ragazza, offrendole perfino un brillante da quindici carati ma "tu vulive ‘a pizza, ‘a pizza, ‘a pizza, ca pummarola n'goppa". La canzone ha un successo straordinario, diventando un vero e proprio inno all'italianità e alla passione per il buon cibo.
La musica va di pari passo con la storia e dopo le battagliere opere degli anni Sessanta e Settanta ci ritroviamo negli ultimi due decenni del 1900 con tanta voglia di musica leggera. Fabrizio De Andrè pubblica proprio nel 1990 la celeberrima "Don Raffaè": il brano racconta il rapporto fra Pasquale Cafiero, brigadiere dell'allora Corpo degli Agenti di Custodia del carcere di Poggioreale, e il boss camorrista "don Raffaè", detenuta nella stessa struttura. Attraverso questo dialogo "il Faber" denuncia la situazione drammatica delle carceri italiane negli anni Ottanta e la sottomissione dello Stato al potere della criminalità organizzata. La conversazione segue vari momenti del giorno, non parla mai di cibo ma il ritornello riguarda il "caffè che pure in carcere ‘o sanne fa", con Cafiero che chiede al boss se gradisse "o Campari" oppure una limonata al posto del caffè. Il brano più celebre riguardo questo prodotto è però "Na tazzulella ‘e cafè" di Pino Daniele, pubblicato nel 1977. La canzone, ammiccante con le sue semplici sonorità dal sapore partenopeo, costituisce una denuncia del sistema di potere che prova a celare soprusi e ingiustizie dietro contentini elargiti alla popolazione. Daniele e De Andrè usano quindi il caffè per raccontare le vicende di uno Stato assente, all'alba di Tangentopoli.
Il brano è dell'album d'esordio di Pino Daniele, "Terramia", uno dei più riusciti di sempre, e contiene anche un altro rimando al cibo in "Fortunato", una canzone dedicata a un semplice tarallaro. Non tutti sanno però che il cantautore partenopeo si è ispirato ad un vero personaggio, che si chiamava proprio Fortunato. Andava in giro con un passeggino pieno di taralli ‘nzogna e pepe, coperti da un drappo di lana per tenerli al caldo. Sul passeggino un cartello che recitava "La ditta Fortunato resta chiusa solo il lunedì"; sembra un'esagerazione ma Fortunato era davvero una ditta: cucinava egli stesso, li metteva in commercio, li distribuiva e li pubblicizzava urlando "Fortunato tene a rrobba bella! ‘Nzogna ‘nzogn", frase che diventerà il ritornello della canzone di Pino Daniele.
Il cantautore scomparso nel 2015 non è stato l'unico a raccontare un lavoro abusivo napoletano: nel 1992 il gruppo Napoli Centrale, fondato dal sassofonista James Senese e da Franco Del Prete, fa conoscere agli italiani gli acquaioli. Proprio come il caffè del duo De Andrè-Daniele, anche Senese usa la bevanda come allegoria delle ingiustizie: "Pelle abbruciata, core arrubbato, ‘o popolo mio senza ragione. Gente fernuta senza nu Dio, uagliune crisciute mmiez a na via"; ovvero "Pelle bruciata, cuore rubato, il mio popolo senza ragione. Gente finita senza un Dio, ragazzi cresciuti per strada". Dopo questa dichiarazione c'è il grido di protesta, "Acquaiò l'acqua è fresca?", un quesito inevaso che lascia una facile conclusione: cosa potrebbe mai dirci un venditore? "Fresca come la neve".
In questo stesso periodo a Napoli si fanno largo due autori interessanti, che mettono sul pentagramma ironia e frasi diventate iconiche, figli artistici degli Squallor, che proprio a inizio '90 si sciolgono: parliamo di Federico Salvatore e Tony Tammaro. Il primo ha portato in musica un "duo comico" cantato, Federico e Salvatore, uno proveniente da una Napoli benestante, l'altro da una Napoli povera. Le dicotomie e le differenze portate anche a tavola, con il sushi contro i piatti poveri ad esempio. Federico Salvatore nel corso degli anni prenderà una strada sempre più sofisticata, il cui culmine è stato raggiunto con "Se io fossi San Gennaro", un capolavoro in cui lo stesso cantante usa il cibo nel senso opposto a quanto raccontato finora: Napoli non può essere racchiusa sempre nei soliti stereotipi di pizza, mandolino e sole.
Di tenore opposto Tony Tammaro che per tutta la sua carriera ha tenuto alto l'onore della sua visione canzonatoria della vita: racconta la provincia di Napoli, la Napoli "dei tamarri" a chi tamarro non è. Il cibo fa parte della vita di queste persone e quindi è inevitabile la centralità della sua proposta: tralasciando "L'Animale", una canzone il cui protagonista è un uomo con grossi problemi di alimentazione e che prevede un elenco infinito di pietanze tipiche napoletane quasi rappate da Tammaro, non possiamo che parlare della frittata di maccheroni. A questo autore si deve l'esaltazione massima della frittata di maccheroni, onnipresente nelle sue opere e resa immortale per la generazione nata negli anni ’90. È riuscito a fare ciò che sognano tantissimi chef stellati: prendere un piatto povero e farlo diventare immortale mettendolo nel mondo dell'arte. La frittata diventa l'accompagnamento per le gite di Pasquetta, il piatto da mangiare in spiaggia con gli amici, con quel senso di libertà e convivialità che solo il comfort food ci riesce a dare.