L'ampelografia italiana è tra le più ricche al mondo. Sono infatti oltre 400 i vitigni registrati nell'albo ufficiale: i più famosi sono alla base delle denominazioni note, ma tante tipologie di uva raccontano storie minori e spesso hanno nomi buffi. Ogni etimologia spiega l'origine della pianta e la sua funzione.
Si chiama ampelografia ed è la disciplina che studia, identifica e classifica le varietà dei vitigni. Fare una conta precisa di quanti ne esistano in Italia è quasi impossibile. Ed è abbastanza complicato – ma soprattutto inutile – classificarli in autoctoni e alloctoni. In un paese di dominazioni e conquistatori come il nostro ha davvero poco senso andare all'origine di un'uva: queste, infatti, sono da sempre piante migranti, che seguivano popolazioni e razze alla ricerca di nuove terre dove insediarsi. Una volta scelto il luogo, si piantava la vigna, che diveniva uno dei tratti della stanzialità. Ce ne sono di antichissimi o di più recenti, nati da incroci in loco o in laboratorio, un patrimonio ampelografico – almeno quello recensito – che tocca i 400 nomi e che rappresenta una parte significativa di tutte le varietà di uva da vino del mondo. Non c'è da stupirsi quindi che l'elenco dei nomi sia talvolta bizzarro, talvolta complicato, tante altre volte ricco di significati storici o legato alla cultura contadina. Dalle uve più note – nebbiolo, sangiovese o barbera – fino alle più sconosciute, tutte portano nei nomi il senso d'appartenenza a un posto o a una funzione. Eccone alcune meno note, ma dagli appellativi altrettanto affascinanti.
Tutto tranne che dolce. Un nome che è stato croce e delizia di quest’uva – e del vino che se ne ottiene – perché banalizza una resa che invece sa essere assai nobile. Diffusa principalmente in Piemonte e in parte in Liguria (con il nome di Ormeasco) quest’uva dà un vino rosso secco. Il nome deriva forse dalla sua poca acidità e dal fatto di essere più approcciabile rispetto ad altri vitigni piemontesi, in primis il Nebbiolo, assai più scontroso in gioventù. Secondo un’altra ipotesi deriverebbe da dosset, parola che in francese indica la collina.
Curioso pensare a un’uva e al contempo a un leader politico – o a un comico, fate voi – ma con il Grillo da qualche tempo succede. Qui parliamo di un’uva bianca siciliana, originaria dell’area del Trapanese. Tutto sommato, questa uva ha una storia “recente”: ha circa 150 anni e nasce da un incrocio tra Catarratto e Zibibbo. Serviva un’uva che andasse a dare nerbo al vino più famoso dell’epoca, il Marsala, fatto con Catarratto e Inzolia. Perché abbia questo nome è difficile da dirsi con certezza: pare che i grilli fossero i noccioli della melagrana che sono, notoriamente, scarsi di numero, cosa che accade anche per i semi di quest’uva.
Qui non è difficile coglierne il senso. L’acidità di quest’uva è così spiccata da portarsela nel nome: addirittura aspra. Siamo nel Casertano, in Campania, ed è ormai una pianta rara, soprattutto nel suo più classico metodo di coltivazione, quello ad alberata, dove le viti sono “maritate”, ovvero legate ad alberi di pioppo che raggiungono anche i 15 metri di altezza. Servono scale lunghissime sulle quali si arrampicano i cosiddetti vendemmiatori ragno.
È una Doc di Lucera, siamo quindi nella zona sud del Gargano, in Puglia. Il nome ha fatto pensare alla sua facile bevibilità, qualcosa che butti giù senza problemi: invece il significato originario è un altro. I luoghi di vinificazione delle antiche masserie del Sud venivano dati in affitto a più produttori di uva. Per questo motivo bisognava velocizzare le procedure, per lasciare spazio a più affittuari in un giorno.
È un vitigno a bacca bianca autoctono del Lazio, dove era conosciuto già in epoca romana e descritto da Plinio come "tutto sugo e mosto". Ha tanti sinonimi, tutti abbastanza buffi: Cacchione, Uva Pane, Zinna Vacca, Pacioccone, Arciprete, tra gli altri. Varietà generosa e produttiva, dagli acini grandi e di bell'aspetto. Ecco il motivo del suo nome.
No, non è uno dei sette nani, ma è un vitigno coltivato in Toscana dal caratteristico aroma di violetta: ed è infatti da qui che deriva il nome, dalla mammola e dal suo profumo. Molto difficile trovarla in purezza, è ancora oggi usata nei tagli di vini come il Chianti o il Nobile di Montepulciano.
Il Salento, in Puglia, è la sua zona di elezione. Il vitigno a bacca rossa, specialmente nel suo primo decennio di vita, è molto produttivo: tanto da caricarsi in modo quasi spropositato di grappoli di uva, proprio come un “somarello”, animale da fatica nelle campagne di una volta.
Se pensate che il Nebbiolo sia il vitigno tipico di Novello, una delle frazioni di Barolo nelle Langhe piemontesi, vi sbagliate. L’uva del posto è bianca e si chiama Nas- Cëtta o Anas-Cëtta. Oggi quasi una chicca, per sua natura delicato e incostante, questo vitigno ebbe la peggio sul più produttivo e remunerativo Nebbiolo e ha corso il rischio dell’estinzione. Provenienza e nome rimangono ancora un mistero: addirittura si paventa l’ipotesi di un passato persiano ricordando il vino “sciaros”, da Scia, il vino del re. Dopo un lungo oblio, rispunterebbe nelle cronache dell’alto medioevo in relazione ai traffici tra Liguria e Piemonte lungo le “vie del sale”. Alcuni documenti ricordano infatti il trasporto di un vino, la sciaretta, che veniva commerciato nell’alta Langa.
Anche le leggende possono impreziosire un’uva. Quella legata a questo vitigno piemontese – la zona è quella del Canavese – ha una storia affascinante. L'Erbaluce sarebbe nota fin dai tempi dei romani come Alba Lux (luce dell'aurora) e sarebbe una variante del Fiano; altri ritengono che sia endemica del territorio prealpino dove cresce: zona di laghi che la fantasia del posto vuole popolati di ninfe. Una di queste era Alba, di cui si innamorò il Sole che, per poterla incontrare, diede vita a un’eclissi durante la quale nacque Albaluce. È dalle sue lacrime, secondo la leggenda, che nascerebbero i frutti dell’uva che porta il suo nome.
Di nome e di fatto. Quest’uva friulana è davvero come una lama, così tannica da tagliare la lingua, ma anche l’acidità importante contribuisce all'effetto. È coltivata nella zona di Udine, ma per il suo nome particolare è conosciuta in tutta la regione.
Uva rossa piemontese dalle alterne fortune. In passato tenuta in maggiore considerazione, ha poi subito un lungo declino: solo negli ultimi anni il vino che ne deriva ha acquistato nuova popolarità. Le prime testimonianze risalgono agli inizi del XVI secolo e parlano di un vino nobile. L’etimologia è francese, da “fraise”, fragola, frutto che ricorda i sentori dell’uva.
Sapete cosa vuol dire “grignare”? In piemontese significa "ridere" e un bicchiere di vino non fa che aiutare il buonumore. Il Grignolino, uva e vino del Monferrato, deriverebbe da questa parola astigiana. Altra ipotesi è quella che richiama le “grignole”, ovvero i semi dell’acino, di cui quest’uva è ricca.
L’origine del nome Ruché è di difficile derivazione. Poiché la varietà è strettamente legata al territorio di Castagnole Monferrato, un piccolo comune vicino a Asti, alcuni pensano che sia attribuibile alla confraternita dei frati di San Rocco, altri alla predilezione del vitigno per le rocche più scoscese e assolate.
Questo nome attribuito dalla cultura popolare viene associato al vitigno bombino bianco, diffuso soprattutto in Romagna e in parte delle Marche dove è più riconosciuto come passerina. Deve il suo nome alla straordinaria vigoria e resistenza alle avversità climatiche, qualità che soprattutto in passato permetteva ai coltivatori di garantire ogni anno la produzione di vino, nonché di pagare i debiti dell’anno precedente.
È una cultivar molto antica, presente da tempo immemore nel territorio dei comuni di Verduno, La Morra e Roddi d’Alba, nelle Langhe piemontesi. Una leggenda popolare associa al vino che se ne ricava straordinari poteri afrodisiaci, forse a causa del suo sapore speziato o per il nome allusivo. In realtà la corretta etimologia deriva da pellis virga, indicando la tecnica della parziale pelatura dei ramoscelli della vite per favorirne la maturazione.