I romani a questo “mangia e bevi” a base di ghiaccio, sciroppi aromatizzati e frutta fresca sono molto affezionati. Ecco cos’è e perché non si deve confondere con la granita.
A Roma è una vera e propria istituzione tra gli street food, al pari di supplì e maritozzi, solo che in questo caso si tratta di uno sfizio fresco, colorato e dissetante, perfetto per affrontare le giornate estive più calde passeggiando nella Città Eterna. Stiamo parlando della grattachecca, una bevanda simile alla granita – ma non lo è, e guai a chiamarla così – composta da ghiaccio, sciroppi aromatizzati e frutta fresca che si compra nei tipici chioschi e si gusta al momento, con cucchiaino e cannuccia. Per i romani, sentire i cristalli di ghiaccio che scrocchiano sotto i denti, non è solo un toccasana, ma riporta spesso a piacevoli ricordi d’infanzia, perché la grattachecca fa parte della romanità tanto quanto il Colosseo.
Senza dubbio per chi viene da fuori Roma e non ne ha mai sentito parlare, dal nome non è facile intuire quali siano gli ingredienti della grattachecca. Per prima cosa, alla base c’è il ghiaccio, che per tradizione deve essere lavorato a mano: si parte da un blocco di acqua ghiacciata di medie-grandi dimensioni e lo si raschia con uno strumento chiamato piallino o pialla da ghiaccio, compiendo similmente lo stesso gesto che fa un falegname quando liscia il legno. In questo caso, al posto dei trucioli, si ricava una massa di ghiaccio tritato grossolanamente, che viene subito messa nel bicchiere, fino a riempirlo ben oltre l’orlo.
Si aggiunge poi la parte liquida, solitamente composta da sciroppi o succhi alla frutta, molto spesso di fattura industriale: ci sono quelli più vintage come il tamarindo e l’amarena, i classici fragola, arancia, limone e i più moderni tipo melone, mango o frutto della passione. Il tutto viene arricchito con frutta fresca di stagione a pezzi: spazio ad ananas, albicocche, pesche, ciliegie, frutti di bosco e cocco. Le combinazioni di gusti che si possono creare sono molteplici, a volte anche personalizzabili. I prezzi vanno dai 2 ai 5 euro, più o meno popolari. La differenza con la granita è abbastanza chiara: non siamo in presenza di una mantecatura degli ingredienti, che contribuisce alla cremosità caratteristica della granita siciliana, ma di un assemblaggio.
Perché la grattachecca si chiama così? Il termine fa riferimento proprio al blocco di ghiaccio di partenza, conosciuto volgarmente come “checca”. Non è però l’unica spiegazione: c’è chi sostiene che “Checca” (quindi con la C maiuscola), sia il soprannome di una non identificata signora Francesca, che per prima, agli inizi del secolo scorso, realizzò questa bevanda e che venisse incitata dalle persone al grido di “Gratta, Checca!”. Non tutti i chioschi, oggi, compiono questa operazione a mano: alcuni si avvalgono di più moderne macchinette tritaghiaccio, ormai accettate dalla comunità locale.
Il blocco di ghiaccio usato come materia prima della grattachecca ha una storia che arriva da lontano: si tratta del mezzo con cui i romani (ma non solo) prima dell’invenzione del frigorifero, usavano per refrigerare gli alimenti. A prelevare e trasportare la neve ghiacciata in città ci pensavano i “nevaroli” dai Castelli Romani: quello del “nevarolo” è un antico mestiere ormai scomparso, che si tramandava di padre in figlio. E di generazione in generazione, si trasmette anche l’essere un grattacheccaro: tanti chioschi a conduzione familiare, per esempio quello de La Sora Mirella a Trastevere o quello della Sora Lella in via di Porta Cavalleggeri, risalgono alla prima metà del ‘900: al loro interno si possono scorgere appese foto in bianco nero, ritagli di giornale ingialliti e cartoline color seppia della Dolce Vita, a testimoniare l’amato e vagamente nostalgico legame con il passato.