Nel mondo del cibo sempre più aziende si affidano a figure autorevoli o meno per pubblicizzare l'attività: i risultati sono altalenanti, bisogna stare attenti.
La notizia che più ha scombussolato l'opinione pubblica degli ultimi mesi è senza dubbio il "Pandoro-Gate" che ha coinvolto Chiara Ferragni e la Balocco, portando l'influencer e l'azienda sul registro degli indagati. Questo porta a interrogarci: è la fine degli influencer? Questo lavoro basa tutto il proprio successo sulla credibilità del content creator, quando viene meno questo fattore, cosa succede all'utente? Il caso Ferragni con il crollo dei follower (migliaia in meno nell'ultimo mese) e l'abbandono dei brand, come Coca-Cola, sembra portarci alla fine di un'epoca ma probabilmente non è così.
Il caso Ferragni sembra al momento un caso per l'appunto, quindi isolato per definizione. Il mondo è in mano ai creator, almeno stando alle stime di "quelli studiati". Secondo un report di Goldman Sachs l'economia globale legata a queste figure raddoppierà il proprio valore entro 3 anni passando dagli attuali 250 miliardi di dollari a 480 miliardi di dollari. Per Andrea Girolami, studioso del tema e Senior Content Development Manager di Mediaset, "Sono i creator ad avere in mano le chiavi della comunicazione online, sono i loro contenuti quelli che consumiamo più volentieri e che le piattaforme di intrattenimento distribuiscono con più convinzione".
Può sembrare tutto molto esagerato ma in un mondo sempre più interconnesso, questi sono temi cruciali perché cruciale è il tempo che passiamo sui social. Le nuove generazioni passeranno circa 10 anni della propria vita online, probabilmente di più, quindi chi ha in mano i social ha in mano la vita delle persone.
C'è però un altro punto su cui discutere e in cui il caso del pandoro e della Ferragni entra a gamba tesa: dalle e-mail che stanno emergendo grazie all'Antitrust si evidenzia una certa insofferenza di Balocco nei confronti dell'influencer. L'affiliazione è stata un totale buco nell'acqua per Balocco che addirittura parla della "necessità di vendere per pagare il suo esorbitante cachet" riferendosi al team dell'imprenditrice. Non è la prima volta che sono state fatte queste critiche alla Ferragni e ad altri influencer. Sebbene nei giorni successivi al video di scuse dell'imprenditrice siano state diffuse notizie su un presunto sold out della tutina da 800 euro indossata nel suddetto video (cosa non verificabile), i negozi milanesi della Ferragni sono deserti nonostante i saldi. A Roma lo store è stato addirittura vandalizzato: qualcuno ha scritto "Truffatrice" sulla vetrina del negozio e "Bandita" sulla targa del logo. Il "Paese reale" la sta abbandonando a quanto pare, forse perché se c'è una cosa su cui le persone non transigono è la finta beneficenza.
La domanda a questo punto sorge spontanea: visto che gli scricchiolii già c'erano e che nella maggior parte delle operazioni con gli influencer i risultati non sono tangibili, perché i brand continuano a farle? La risposta potrebbe risiedere nell'inadeguatezza di una parte della classe dirigente, soprattutto quella più legata al passato. Le aziende che ragionano secondo i vecchi paradigmi premiano i sottoposti per i risultati immediati: assoldare una delle più importanti content creator al mondo è una mossa facilmente giustificabile dai team verso chi "comanda". Qualsiasi ceo di qualsiasi azienda di rilievo, per quanto fuori dal mondo possa essere, conosce una Chiara Ferragni o una Kardashian. Molte persone poco aggiornate su questi temi basano tutto il successo sul numero di follower perché è un qualcosa di quantificabile. Si illudono che visualizzazioni e like siano trasportabili sul brand d'appartenenza. Questa cosa non è vera, lo dicono i numeri. È però la base del capitalismo: la strategia del "tutto e subito" e della necessità di andare sempre avanti e puntare più in alto porta a copiare gli altri: "lo hanno già fatto questi brand, allora funziona" è una frase che troppo spesso si sente nei meeting delle aziende. Poco importa se non funziona, poco importa il contenuto stesso. Conta la forma, non il messaggio. Questa stessa deriva sta entrando a gamba tesa nel mondo del giornalismo, un cosmo in cui ormai content creator e giornalisti hanno la stessa tipologia di ruolo, alimentando la confusione nelle persone. La verità è che, soprattutto nel mondo del cibo, siamo alla fine di un'Era e all'inizio di un'altra. Il problema è che non siamo certi che questa nuova sia migliore.
Gli influencer basano il proprio business sulla credibilità ma come facciamo a destreggiarci tra le centinaia di persone che fanno o ambiscono a fare questo lavoro? Un influencer credibile e appetibile dovrebbe possedere diverse caratteristiche che suscitano fiducia, autenticità e coinvolgimento da parte del pubblico.
Autenticità, passione, interesse, sono solo alcuni dei temi che devono essere presenti tra i post dei content creator. La coerenza nel mostrare autenticità e la capacità di creare una connessione genuina con il pubblico sono fondamentali per un influencer efficace:
Gli influencer sono persone che utilizzano i social media e altre piattaforme digitali per condividere contenuti sulla base delle loro esperienze personali, interessi o competenze. Il loro obiettivo è "influenzare" le opinioni e i comportamenti dei propri follower. Per questo motivo i marchi di ogni genere si servono di queste figure per promuovere prodotti o servizi. Nel mondo del food tutto questo è sempre più permeante, il che crea più di qualche problema.
Il ruolo del content creator è molto più subdolo nel mondo del food. C'è una differenza molto sostanziale però tra giornalisti e influencer: i giornalisti sono professionisti dell'informazione con obblighi etici e professionali definiti dalla legge. Il loro scopo è raccogliere, verificare e riportare le notizie in modo obiettivo e accurato, basandosi sulla ricerca dei fatti e sulla presentazione imparziale delle informazioni al pubblico. Gli influencer non sono vincolati da norme etiche, godendo così di una "libertà" che li esime dall'essere obiettivi.
Nel contesto del mondo del food, gli influencer possono recensire ristoranti in base a pagamenti o cene offerte, è una vera e propria promozione. Questa pratica, chiamata influencer marketing, ha radici antiche. Anche in questo caso però tutto sta nella credibilità: i lettori devono ritrovare l'esperienza nel piatto quando poi ci vanno, altrimenti viene meno la fiducia. Se un influencer dice che un determinato panino è davvero molto buono e poi non lo è, molti si sentono fregati. Questo nel giornalismo è molto più "accettato" invece: se il giornalista è credibile e un lettore non si ritrova nella recensione è molto più propenso a giustificare il tutto riducendo l'esperienza a una "serata no" oppure a una questione di gusti personali. Nel primo caso comunque c'è una legge che regolarizza il tutto: i post devono contenere disclaimer come #ad, #adv, #gifted o #suppliedby per evitare pubblicità occulta.
A differenza degli influencer, i giornalisti non possono essere pagati per postare, poiché la legge richiede che il loro giudizio sia libero da influenze esterne. Le recensioni devono derivare dall'esperienza e formazione, siano esse positive o negative, contribuendo così a un giornalismo obiettivo che guidi il pubblico verso scelte informate. Per fare questo però servono editori che paghino le cene ai giornalisti: finché i giornalisti devono pagare da soli le proprie esperienze gastronomiche da raccontare a un pubblico la "corruzione" è dietro l'angolo.