Il ragù è la perfetta metafora del tempo per tutti gli artisti napoletani. Un piatto fatto di condivisione e ricordi, reso immortale da Eduardo De Filippo. Il grande drammaturgo partenopeo non è stato però l'unico a scegliere il ragù come protagonista delle proprie vicende. Vediamo gli altri casi celebri al cinema e in teatro.
Il potere del tempo, la forza dell'esercizio cadenzato ripetuto per ore e ore e ore. Il ragù napoletano si ciba di questo ritmo perché non è solo una preparazione con cui condire la pasta, è molto di più. Il ragù napoletano è "un incontro con i pensieri, un appuntamento con la fantasia", la stessa descrizione che Luciano De Crescenzo fa del bagno nella vasca. Per fare questo sugo, secondo tutti i crismi, ci vogliono ben tre giorni. Avete presente che pazienza bisogna avere per cominciare a cucinare qualcosa di venerdì, che mangerete solo di domenica? State lì, in cucina, per tre giorni, in attesa della "resurrezione" del sapore. Il ragù napoletano è pure problematico, nevrotico come un personaggio di Woody Allen: se lo ignorate per un paio d'ore lui s'azzecca alla pentola e viene male, poi in bocca vi fa sentire tutto l'amaro del bruciato. Quest'amarezza è il linguaggio del ragù, come se dicesse: "Voi mi ignorate? E io per ripicca vi intossico".
Un piatto da tale personalità ha una potenza simbolica troppo importante per essere ignorata dai tanti grandi artisti napoletani. Il simbolismo di questo sugo va ben oltre il sapore esplosivo che tira fuori da carne e pomodori, proprio per questo motivo ha solleticato tantissimi artisti partenopei che lo hanno reso protagonista dei propri racconti. La cosa curiosa è che il ragù non compare praticamente mai nella canzone napoletana, una tradizione che spesso e volentieri ha messo al centro la gastronomia campana. Il ragù è più di nicchia e infatti fa parte del mondo del teatro più di ogni altra pietanza.
Come accaduto spesso nella drammaturgia moderna italiana, "in principio fu Eduardo". Il grande genio nato il 24 maggio 1900 ha da sempre usato il cibo come allegoria della vita. Celebre la scena in balcone col caffè di "Questi fantasmi", ancor più celebre l'uso che Eduardo fa del ragù in "Sabato, domenica e lunedì", riportato in scena su Rai 1 da Sergio Castellitto.
In quest'opera il rapporto tra i membri della famiglia Priore è scandito dai tempi e dalle digressioni sul ragù. La ricetta la riviviamo in scena, in una discussione tra Rosa Priore e la cameriera Virginia. La prima vuole fare il ragù come si deve, la seconda protesta perché c'è troppa cipolla e perché "ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro pomodoro e carne e cuoce tutto assieme". Rosa non è per niente d'accordo:
"Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù? Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione".
La signora Priore spiega perché segue questa ricetta: semplice, glielo ha insegnato così sua madre. In scena la protagonista racconta il ragù di sua mamma:
"Per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se l'uccidevano. Lei usava o il «tiano» di terracotta o la casseruola di rame. L'alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di «annecchia» e lo metteva in una sperlunga come si mette un neonato nella «connola», poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata".
In quest'opera del 1959 c'è tutta la forza narrativa della cucina, della sua capacità di unire o dividere le generazioni. "Sabato, domenica e lunedì" ha fatto la storia del teatro italiano ma è divenuta celebre alla massa solo nel 1990 grazie al film della compianta Lina Wertmüller, i cui protagonisti erano Luca De Filippo, figlio di Eduardo, e Sophia Loren. Nell'opera della regista romana, la discussione sul ragù più grossa avviene in una macelleria. Il litigio scatta sulle diverse tipologie di carni di manzo che vanno a comporre il famosissimo piatto.
La preparazione di questo famoso sugo viene sì descritta, ma per tantissimi anni non c'è traccia delle quantità: di fatto, il ragù dei Priore non è mai stato replicabile. In realtà la ricetta del ragù di Eduardo De Filippo esiste eccome ed è scritta in un libro meraviglioso curato dall'ultima compagna di Eduardo, Isabella Quarantotti De Filippo, pubblicato dopo la morte del commediografo. Il volume, "Si cucine cumme vogl' i'…", racconta le "storie di cucina" di Eduardo, citando la conserva di pomodoro, gli spaghetti con le vongole fujute, le melenzane a scarpone e altre ricette della tradizione partenopea. Per il ragù di Eduardo occorrono:
Tutta la preparazione viene poi riproposta secondo i canoni della famiglia Priore.
Se pensate che la poetica di Eduardo De Filippo riguardo al ragù si fermi alla commedia o a un'opera postuma, vi sbagliate di grosso perché in "Sabato, domenica e lunedì" c'è anche una poesia dedicata al sugo più celebre della cucina partenopea, chiamata proprio "O rraù":
‘O rraù ca me piace a me
m' ‘o faceva sulo mamma.
A che m'aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun songo difficultuso;
ma luvammel' ‘a miezo st'uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avéssem' appiccecà?
Tu che dice? Chist' ‘e rraù?
E io m' ‘o mmagno pe' m' ‘o mangià…
M' ‘a faje dicere na parola?…
Chesta è carne c' ‘a pummarola.
Ben 43 anni dopo la prima di "Sabato, domenica e lunedì" al Teatro Quirino di Roma, arriva sul grande schermo un'opera che prende a piene mani da questa commedia: "Incantesimo napoletano". Si tratta del film d'esordio di Paolo Genovese, regista tra gli altri di "Perfetti sconosciuti", e di Luca Miniero, diventato celebre con "Benvenuti al Sud".
L'opera è surreale: la protagonista è una bambina nata a Napoli che, crescendo, inizia a parlare in uno stretto dialetto milanese. L'anomalia getta i parenti nello sconforto e diventa una storia di famiglia in una commedia molto triste, in cui la disperazione è condivisa e nascosta sotto un sorriso. Questo sorriso spesso ce lo strappano Riccardo e Ciro, due zii della bambina, ossessionati dal ragù:
"Bisogna mettere tutto dentro una bella pentola e far cuocere a fuoco lento. L'odore si deve espandere per tutta la casa, deve essere impegnata. Se la casa non si impregna, non lo state facendo bene. C'è bisogno che il sugo pippéi, deve pippiare come diciamo noi; deve fare le bolle, come dite voi. Il ragù non è solo un sughetto, è una tradizione, e tutti si vogliono più bene".
Per tutti e 82 minuti di pellicola, i due personaggi sono ripresi a camera fissa nell'intento di girare questo benedetto ragù. Ci sono perfino delle scene in notturna, in cucina, con i due che si danno il cambio senza mai ignorare quel pentolone di sugo amato come un figlio.
In mezzo a queste due opere ce n'è un'altra, monumentale, che ha fatto la storia: "Il Padrino". La trilogia di Francis Ford Coppola che ripercorre le vicende della famiglia Corleone ha reso iconica la cucina italo-americana, portando un nuovo vocabolario nella collettività e una nuova tradizione culinaria nel mondo. Tra le scene più iconiche c'è quella con Clemenza, grande amico di Don Vito, che insegna la ricetta (rivisitata) del ragù napoletano al giovane Michael Corleone: "Vieni qua guagliò, può succedere che devi cucinare per una ventina di figli! Vedi, si comincia con un poco d’olio, ci friggi uno spicchio d’aglio poi ci aggiungi tomato e anche un poco di conserva. Friggi e attento che non si attacca! Quando tutto bolle ci cali dentro salsicce e purpett', poi ci metti uno schizzo di vino e nu' pucurille ‘e zucchero".
Il ragù in questo film viene usato come intercalare del tempo: la figura del sugo-metronomo è molto più chiara nel libro da cui è tratto il film, scritto da Mario Puzo. La "lezione di cucina" viene offerta da Clemenza a Mike per non fargli pesare l'attentato al padre, in attesa dell'esito delle indagini "interne" alla "Famiglia". Nel romanzo del 1969 la figura di Clemenza è ancora più caratterizzata: un uomo crudele con i nemici, amorevole con la famiglia, costantemente intento a cucinare questo sugo rosso, intenso, meraviglioso, che tanti artisti ha fatto sognare nel corso del Novecento. Ancora una volta il ragù è protagonista di un'opera con al centro delle vicende familiari, diverse generazioni e soprattutto il Tempo come concetto astratto.