In una delle città simbolo della cucina italiana, Napoli, un gruppo di giovani chef sta creando un movimento in procinto di esplodere: la fusion nippo-napoletana. Giappone e Campania non sono mai state così vicine, grazie all'abbinamento tra i peperoni e la salsa teryaki, tra il wasabi e le salsicce, tra il wagyu e la cipolla. Ricette, ricerca, inventiva, tutto in nome del gusto.
Il concetto di "cucina fusion" è molto interessante perché, a conti fatti, ogni cucina del mondo è fusion: senza l'incontro tra i vari popoli nel corso della storia non esisterebbe alcun piatto. Da alcuni anni c'è una fusione in Italia che sta cercando con forza di uscire dal guscio e sprigionare tutto il proprio potere: la fusion nippo-napoletana. Tra zucchine e wasabi, tra salsicce e alghe nori, i sapori del Giappone e della Campania si fondono alla perfezione in un tripudio di gusti e golosità.
Tutto ciò è molto interessante: Napoli è una città particolare, che non si lascia conquistare da nulla che non si sia scelta da sola; una città piena di segreti, misteri, arte, cultura e storia. La gastronomia napoletana è tra le migliori al mondo, con i suoi gusti forti genuinamente saporiti, piatti iconici che hanno conquistato le tavole di tutto il mondo. Siamo abituati a pensare che la cucina italiana sia così com'è, immutabile e immutata, nazionalista e orgogliosa, ma ci sbagliamo di grosso.
Facciamo l'esempio più semplice: ve lo immaginate un mondo senza pizza? Non avrebbe ragione d'esistere. Eppure, anche la pizza si può considerare cucina fusion: derivante dalla pita greca, a sua volta discendente dei lievitati egizi; il pomodoro lo abbiamo importato in Europa dopo la scoperta delle Americhe; solo mozzarella e origano (rispettivamente per Margherita e Marinara) sono prodotti italiani. L'unione delle intelligenze ha creato il piatto della felicità.
Oggi questa spinta fusion è tornata in altra forma, grazie all'inventiva di imprenditori e chef napoletani che hanno una passione smisurata per il Giappone, ne hanno studiato la cucina e che spesso e volentieri ci hanno pure lavorato nel Sol Levante. Vediamo tutti i segreti della fusion nippo-napoletana insieme agli chef che la stanno rendendo grande.
Se pensiamo agli stereotipi dei napoletani e dei giapponesi penseremmo che le due realtà non potrebbero essere più diverse. Se poi ci riflettiamo sulle due realtà, più di qualche similitudine interessante la troviamo. Innanzitutto la più scontata: la città di Kagoshima, gemellata con Napoli, sembra una copia identica del capoluogo campano. Il rapporto tra le due metropoli è così profondo che si sono addirittura "scambiate" le strade: in Giappone esistono dei tram e una strada dedicati al capoluogo partenopeo, che a sua volta al Vomero, celbre quartiere napoletano, è stata intitolata una via alla "sorella" giapponese.
Ci sono similitudini più sottili poi, dovute agli stereotipi. Pensiamo a Napoli e subito ci viene in mente il caos, la gioia, i colori della città, ma le anime che meglio hanno rappresentato questo popolo nel teatro, nel cinema e nella musica in realtà sono state Eduardo De Filippo, Massimo Troisi e Pino Daniele; tre personaggi taciturni, schivi, tranquilli. Stesso discorso per il Giappone, con i suoi templi, l'assoluto rispetto per la ritualità della vita, il godimento del silenzio. Eppure il Giappone è la terra degli show televisivi più movimentati, trash e violenti che esistano; è la nazione che ha dato vita agli anime, uno stile di animazione variegato che spesso ha come protagonisti dei mostri molto colorati e tante scene disinibite. La Campania e il Giappone sono due terre lontane dal punto di vista geografico ma vicinissime nell'animo.
Tutta la base della cucina fusion nippo-napoletana si basa su queste similitudini e su questi contrasti. L'assonanza, un richiamo armonico che porta ad un impatto visivo soddisfacente, combinata alla dissonanza, con due sapori simultanei, simili, declinati in tonalità diverse. Alla fin fine è questo il "fusion", un tipo di cucina che combina in maniera esplicita elementi associati a differenti tradizioni culinarie per creare nuove tradizioni.
Su queste dissonanze pone l'accento Enrico Schettino, imprenditore e fondatore di Giappo, una catena di ristoranti presente in tutta Italia e nata proprio a Napoli: "Le due cucine stanno bene insieme perché sono molto vicine nel gusto ma molto lontane nel contenuto. Entrambe hanno piatti dal grande sapore, partono però da basi diverse: la cucina napoletana non è molto leggera, quella giapponese è più healty come si suol dire. Da Giappo le abbiamo unite cercando di sfruttare al meglio le peculiarità". La chiave del successo della fusione tra le due culture è "non eccedere mai perché in quel caso, quello che può essere un connubio divertente, diventa invece oppressivo . Sono contro gli estremismi".
La cucina fusion nippo-napoletana è arrivata anche in televisione grazie a Schettino e Alessandro Borghese, con delle puntate dedicate di Kitchen Sound in cui l'imprenditore e cuoco partenopeo ha cucinato "i noodles alla Nerano, che sono molto sfiziosi: uniamo gli ingredienti meno delicati della cucina giapponese, i noodles appunto, a quelli della cucina napoletana. Abbiamo fatto anche gli shirataki, un tipo di spaghetti ricavati dalla radice del konjac, con prezzemolo, colatura di alici di Cetara e crema di edamame".
La colatura di alici di Cetara si presta molto a questa unione perché è un tripudio di umami, il famoso quinto gusto giapponese che sta per "saporito". Un abbinamento geniale tra la colatura e i prodotti nipponici lo fa Francesco Franzese, chef del Rear a Nola, una delle nuove mete gastronomiche italiane, che propone in menu un meraviglioso bao con wagyu scottato, melanzane e mayo alla colatura di alici.
"Da napoletano, da cuoco campano, mi piace valorizzare la mia terra perché penso ci siano alcuni dei migliori ingredienti al mondo" racconta Franzese. "Avendo avuto un'esperienza in un importante ristorante giapponese e poi all'estero, ho visto il potere della cucina fusion, che usa ingredienti provenienti da ogni dove. Ho una passione spasmodica per il Giappone, per cui mi trovo spesso ad abbinare la materia prima tipica dell'estremo Oriente. Tra gli accostamenti a cui sono più legato c'è il miso di pomodoro; il wagyu, che oltre a metterlo nel bao, lo uso anche con i friarielli e nella lardiata; l'umeboshi, un dolce a base di prugne, insieme alla mela annurca giuglianese; il mirin, una sorta di sakè dolce, con la cipolla di Tropea; uso il wasabi per insaporire le salsicce e nel mio peperone ‘mbuttunat uso la salsa teryaki". Tutti questi elencati sono abbinamenti ostici a primo impatto, ma che in realtà stanno benissimo insieme. Il peperone citato dallo chef è "sbottonato", quindi totalmente destrutturato, con alcuni ingredienti diversi rispetto alla ricetta tradizionale campana, eppure il sapore è proprio come quello fatto da mammà.
Il piatto simbolo di Francesco Franzese è probabilmente il Ramen campano, una delle pochissime ricette che si è portato dalla precedente esperienza in cui ha conquistato la sua prima Stella Michelin: si tratta di un piatto ispirato alla minestra maritata che sposa la cultura nippo-napoletana. Al posto dei noodles e dell'uovo sodo morbido marinato in aceto e salsa di soia del ramen giapponese, troviamo dei tagliolini all'uovo fatti a mano, la parte proteica è invece data da lingua salmistrata di vacca, la braciola di cotenna di maiale, la guancia di vitello, il salsiccione di Sant'Eustachio, la minestra nera e il porro. Il tutto è immerso in una generosa porzione di brodo dashi.
Il dashi lo usa anche Giuseppe Molaro, chef di Contaminazioni a Somma Vesuviana, anche lui ex Stella Michelin conquistata direttamente a Tokyo. Lo chef campano è uno che di Giappone se ne intende, lo ha vissuto per anni e lo vive tutt'ora visto che sua moglie è proprio giapponese: "I miei suoceri mi inviano gli ingredienti nascosti tra i vestiti di mia moglie", racconta scherzosamente Molaro. Secondo il cuoco allievo di Heinz Beck più che una fusion con la città di Napoli "è con gli ingredienti italiani in generale che sta bene la cucina giapponese e viceversa. Se siamo bravi a capire come mescolare gli ingredienti, possiamo farlo con quelli di tutto il mondo. Al ristorante abbiamo contaminazioni, è proprio il caso di dirlo, oltre che col Giappone, anche con Cina, Thailandia, Vietnam. Ci sono dei sapori simili con la nostra regione e con l'Italia. La cosa fondamentale è conoscere la materia prima".
La spinta di questi giovani cuochi nel cercare di innovare la cucina campana sta innalzando il livello di tutto il comparto. La fusion nippo-napoletana non ha conquistato solo ristoranti gourmet o indirizzi dedicati. C'è un ristorante storico napoletano che ha inglobato perfettamente questa nuova tradizione, senza mai tradire la propria identità, ovvero Mimì alla Ferrovia. Secondo Salvatore Giugliano, chef e titolare del ristorante, la fusion nippo-napoletana è un ottimo modo per "rendere contemporanea la cucina partenopea. La tradizione può evolversi grazie a ingredienti stranieri, che siano giapponesi o di altra nazione".
Da Mimì alla Ferrovia trovate ad esempio un bao al ragù genovese, piatto di chiara estrazione cinese nato proprio dall'incontro con "un ristorante che si trova vicino al nostro, gestito da una famiglia cinese. Noi siamo attorniati da supermercati multietnici e spesso attingo da altre culture. La passione per gli ingredienti nipponici ce l'ho sempre avuta perché amo quella nazione da sempre. Gli anime, i manga, la cultura: di quella terra lontana mi affascina tutto e ho anche avuto il piacere di lavorare lì. Sei anni fa, durante un soggiorno di alcuni mesi in Giappone, ho lavorato in ristoranti con 1 e 2 Stelle Michelin come Nishikawa a Kyoto e Rakushin a Osaka: e questo mi ha permesso di imparare ad usare ingredienti mai visti prima. Oggi uso il wasabi come insaporitore delle zucchine alla scapece e uso le marinature giapponesi per le nostre alici ‘mbuttnate".
Un modo meraviglioso di far convivere queste due realtà simili ma diverse, con tanti punti in comune come "la gestualità e l'attenzione alla tradizione, i riti che hanno le due culture. Entrambe le cucine usano tecniche semplici, tramandate negli anni, senza mai eccedere nella tecnologia anche quando questa esiste e si potrebbe usare. La pazienza è una virtù fondamentale sia nella cucina giapponese sia in quella napoletana: ci sono piatti lunghi, fatti d'attesa e concentrazione, fatti di silenzio e amore" conclude Sasà Giugliano.
All'inizio abbiamo detto che Napoli non si piega, non accetta padroni, non si inchina a nessun re. La storia d'altronde è chiara: i moti rivoluzionari in città sono sempre stati presenti, con figure iconiche come quella di Masaniello, con repubbliche effimere come quella filofrancese del 1799, fino ad arrivare alle quattro giornate di Napoli, l'insurrezione popolare che nel 1943 ha reso Napoli la prima grande città europea a insorgere con successo contro l'occupazione dei nazisti. L'insofferenza all'autorità pre-imposta la si vede in ogni ambito della vita, perfino nel calcio: pensate che negli anni ’60 con "l'incoronazione" di Pelè come re del calcio mondiale, la città trovò un proprio re in Canè, un giocatore molto forte, che vive tutt'ora nel capoluogo campano. Allo stadio si intonavano cori denigratori nei confronti di O Rey che al contempo esaltavano il proprio attaccante. Mai allineati insomma: tutte le culture che si sono succedute nel corso della storia sono state inglobate dai napoletani, sempre fedeli a se stessi.
La stessa cosa è successa con la cucina etnica. A differenza delle altre metropoli italiane come Milano, Roma, Torino, il livello della cucina etnica nel capoluogo campano è davvero basso. Ci sono tanti ristoranti con influenze straniere che sbarcano il lunario, ma solo una nazione ha davvero toccato il cuore dei napoletani: il Giappone.
In Campania si trovano alcuni dei migliori ristoranti giapponesi d'Italia, gestiti da cuochi giapponesi, di cultura nikkei o semplicemente da chef partenopei con il pallino del Sol Levante. Secondo Schettino, che da Napoli è partito per creare un impero, "l'elezione della cucina giapponese a Napoli è figlia del mare. I napoletani hanno una grande tradizione legata alla cucina di mare, hanno un palato fine e come tutte le città meridionali, ha pure una cultura del crudo da far invidia. Per questo, il sushi in primis e poi tutto il resto, è stato così ben accolto dai napoletani".
Secondo lo chef stellato Domenico Candela, cuoco del George Restaurant nel Grand Hotel Parker, la simbiosi è da ricercare ancora più in profondità: "Gli elementi simili, la costante ricerca dell'umami e del sapore assoluto, hanno fatto sì che la cucina giapponese si fondesse alla perfezione con quella italiana e napoletana. A Napoli i ristoranti giapponesi di livello hanno avuto modo di crescere perché i napoletani hanno visto la stessa ossessione intrinseca nella nostra cultura gastronomica, anche in loro. L'esempio che faccio sempre è il pomodoro, un prodotto molto umami onnipresente nella cucina italiana, il cui abbinamento simbolo è con lo spaghetto, a cui aggiungiamo del parmigiano che è glutammato allo stato puro: il risultato è un piatto esplosivo. La cucina campana è di per sé molto gustosa, ricca di sapori, quindi si lega naturalmente alla cucina giapponese".
Le due tipologie di ristorazione secondo Candela – che ha una formazione francese ma che al contempo usa prodotti giapponesi nei propri piatti – la fusion nippo-napoletana esiste perché "semplicemente le due culture prediligono piatti buoni, senza girare intorno ad elucubrazioni mentali. La gastronomia campana è saporitissima, gustosa, tra le migliori al mondo; stesso identico discorso lo possiamo fare con la gastronomia giapponese". Due cucine che in pratica si sono trovate perché destinate a trovarsi. Due cucine che unite, fuse, formano una nuova corrente gastronomica interessante, intrigante, stimolante, stuzzicante o molto più semplicemente: buona.