Una delle ricette più tradizionali e identitarie della Toscana è la pappa al pomodoro. Una preparazione semplice, frugale e di estrazione contadina, storia della cucina regionale. Ce la siamo fatta raccontare da Valeria Piccini, chef del due stelle Michelin Ristorante Caino.
Se c’è una formula che può sposarsi con le abitudini gastronomiche contadine di un tempo, questa è probabilmente racchiusa ne “l’arte di arrangiarsi”. Sintesi perfetta dell'abilità di ottenere il massimo dal poco a disposizione, spesso dal minimo reperibile; simbolo dell’ingegno culinario capace di aguzzare l’ispirazione contribuendo alla realizzazione di pietanze più o meno abbondanti ma comunque realizzate con prodotti semplici, facilmente reperibili. Frutto (in tutti i sensi) della terra. Pomodori, patate, erbe selvatiche, cipolle, olio e legumi su tutti, con il pane (quando disponibile) a contribuire alla consistenza finale del piatto.
Dovessimo trovare un filo conduttore capace di accomunare la cucina contemporanea a quella che fu, propria delle realtà rurali e contadine, questo sarebbe il concetto dell’antispreco. Un principio, quello del no waste, figlio e risultato dei differenti periodi di “appartenenza”: se oggi, in un contesto in cui in ogni fase dell’anno abbiamo tutto a disposizione, non sprecare cibo è un fatto di etica, responsabilità e sostenibilità, un tempo era questione prettamente di sussistenza. Se non si riusciva a recuperare gli avanzi, in poche parole, si pativa la fame.
Oggi, nella cucina famigliare così come nella ristorazione, si sta sempre più cercando di limitare quanto possibile gli sprechi alimentari, provando a recuperare e utilizzare i cosiddetti scarti nelle più svariate preparazioni “di recupero”. Un tempo questo principio era praticamente un obbligo, non morale, ma prettamente di pancia. Attraverso la valorizzazione di materie prime apparentemente “esauste” si riusciva a ottenere quel qualcosa in più da mettere a tavola, capace di riempire lo stomaco a grandi gruppi ora famigliari ora contadini. Anche da questo dipendeva il poter andare a dormire con la pancia piena o vuota.
Ne sono un esempio gli insaccati realizzati con gli scarti del maiale, ne è un esempio l’acquacotta, una sorta di minestrone a base di erbe selvatiche, patate, cipolle e pane raffermo. Ne è un esempio la panzanella, ne è un esempio la pappa al pomodoro: preparazione anch’essa di estrazione contadina, popolare, pensata e realizzata per recuperare il pane duro, che non sarebbe stato possibile mangiare altrimenti. Se non mollato (bagnato, cioè) con liquidi vegetali, per l’appunto.
Un tempo, infatti, il pane era bene prezioso. Se oggi è un alimento dato quasi per scontato, disponibile in più formati, tipologie e dimensioni, tutti i giorni e in abbondanza, nel mondo contadino di una volta la situazione era del tutto differente. Il pane non veniva sfornato quotidianamente, generalmente in famiglia era prodotto il sabato o la domenica, e una forma doveva durare quanto più possibile. Capitava, però, che dopo troppo tempo diventasse raffermo, duro, immangiabilo. Proprio perché cibo prezioso, e sostanzioso, non poteva essere buttato; quindi l’ingegno della gente portava a pensare ricette di recupero e rivalorizzazione del pane stesso. Per dargli una seconda vita.
La pappa al pomodoro è una di queste ricette, perfetta sintesi ed espressione del mondo rurale: pane, olio, basilico e, per l’appunto, pomodoro, combinati per creare qualcosa dalla spiccata capacità di abbottare la pancia. Culla di questa ricetta la sempre ghiotta Toscana, in cui un tempo (ma anche oggi) veniva prodotto il tipico pane “sciapo” (o sciocco); capace di invecchiare velocemente per l’assenza di sale (dalle spiccate capacità conservative), non utilizzato in quanto per lungo tempo è stata una materia prima rara, preziosa e costosa. Non alla portata dei contadini, insomma.
Anche oggi è proprio questa la tipologia di pane maggiormente utilizzata nella ricetta della pappa al pomodoro, capace di sposarsi al meglio col il resto dei pochi altri ingredienti. La Maremma e in prossimità di Siena e Firenze le zone di maggior diffusione.
Come tante altre ricette della tradizione è difficile risalire con esattezza alla nascita della pappa al pomodoro. Se, da una parte, nel 1907 abbiamo la prima testimonianza (almeno, a noi pervenutaci) della preparazione in un libro chiamato “Il giornalino di Gian Burrasca”, scritto dal fiorentino Luigi Bertelli, dall’altra è molto plausibile come la pappa al pomodoro abbia origini ben più remote.
Negli stessi anni, orientativamente, conosceva grande diffusione il celebre e ricco ricettario di Pellegrino Artusi (tra l'altro, vissuto a Firenze), La Scienza in Cucina e l'Arte di Mangiar Bene, ma nonostante le numerose pubblicazioni dal 1891 al 1911 (anno della morte dell'autore) nel libro non vi è traccia di questa ricetta. Possibile, quindi, che ancora non avesse riscontrato un successo tale da "guadagnarsi" la menzione all'interno del volume.
Se è vero, da una parte, come non abbiamo fonti accertate precedenti all’inizio del 1900, è però altrettanto vero come sia la storia, sempre puntuale, a venire in nostro soccorso. E, nello specifico, la storia del pomodoro, la quale ci offre un range più ristretto in cui collocare la nascita del piatto.
Il caro vecchio pomodoro, che in tanti ritengono sia un prodotto italiano, immaginato con la sua coppoletta, mandolino e bandiera tricolore, è in realtà un alimento proveniente dalle Americhe. Specificamente dal Centro e Sud America, giunto in Europa a metà del 1500 importato nel Vecchio Continente dai conquistadores spagnoli.
Il pomodoro, almeno in un primo momento, non attecchì in cucina. Anzi, ritenuto tossico, ne veniva usata la pianta per lo più per scopi ornamentali ed estetici nelle case. Solamente tra il 1700 e il 1800 questo frutto iniziò a essere sdoganato, usato anche in ambito gastronomico. Non possiamo dirci certi della sua origine, ma è realistico affermare come la prima pappa al pomodoro non sia stata realizzata (su per giù) dai contadini più di 200 – 300 anni fa. La natura frugale, autentica e genuina della ricetta ha contribuito alla sua sopravvivenza nel tempo, facendola non solo arrivare nella gastronomia contemporanea, ma rendendola declinabile anche nell'alta ristorazione. Ne sa qualcosa un'importante chef toscana, Valeria Piccini. Riconoscimenti alla mano, forse la più importante.
Chi è riuscita a declinare la pappa al pomodoro in un'ottica di contemporaneità è Valeria Piccini, la chef del due stelle Michelin Ristorante Caino, a Montemerano (provincia di Grosseto). In piena Maremma la Piccini porta avanti una cucina toscana autentica e verace, adattata a tempi, canoni e gusti contemporanei. Adattata ai canoni della ristorazione gourmet. Non poteva mancare tra le sue ricette la pappa al pomodoro, una preparazione che per lei ha, prima di tutto, il sapore di tradizione ma soprattutto di famiglia.
"Il primo ricordo legato alla pappa al pomodoro è legato a mia nonna: di inverno la preparava con i pomodori appesi, era un pasto caldo che aspettava mio padre e mio nonno di ritorno dalla campagna. Era un piatto rifocillante e appagante, diverso in qualche aspetto dalla pappa che si fa oggi, molto più rossa. Era un piatto dai colori più tenui perché realizzata con i pomodori non così rossi come quelli attuali. Qualcosa di frugale e contadino, molto semplice". La versione realizzata dalla chef, pensata per la bella stagione, è arricchita anche dalla presenza di alici crude e un gelato al pomodoro: "È da un po' di tempo ormai che non la metto in menu, ma oggi ne realizzo una tradizionale da proporre ai clienti durante l'aperitivo".
Una ricetta, insomma, da tutti i giorni e per tutta la famiglia: "Una preparazione per fare una cena veloce, non legata a occasioni particolari. Spesso e volentieri rappresentava un pasto rapido adatto per tante persone. Noi eravamo 5 in famiglia, aveva una grande capacità di sfamare perché oltre al pane quando si poteva veniva fatta col brodo, che dava anche più sapore, poi il formaggio, le croste di pecorino o di parmigiano e a fine cottura del basilico. Era un piatto ricco, abbastanza rifocillante". La nonna come principale addetta alla sua realizzazione e, di riflesso, anche la prima maestra di una giovane Valeria: "Io ho imparato a farla guardando, analizzando, per lungo tempo, con tutte le attenzioni del caso. Poi ho cominciato a farla veramente quando ho iniziato a lavorare qui al ristorante".
Le differenze tra le due ricette? "La pappa di mia nonna era più simile a una minestra, maggiormente liquida, mentre quella attuale e che faccio io è un po’ più asciutta, densa. Io inoltre oltre all'aglio uso anche la cipolla, che addolcisce il pomodoro, e aggiungo aromi come sedano e basilico. Quest'ultimo rigorosamente a preparazione ultimata. Io, inoltre, al pane tolgo la crosta: così facendo si ottiene una pappa più fine".
È curioso come, tra le tante Regioni d'Italia, proprio in Toscana la pappa al pomodoro sia nata e abbia preso piede. Valeria a proposito ha una sua teoria: "Siamo in uno dei territori in cui si fa maggiore uso del pane raffermo. La Toscana è ricca di zuppe con questo ingrediente: la ribollita e la pappa al pomodoro ne sono solamente due, abbiamo inoltre la minestra a base di pane, fagioli e verza, poi c’è quella coi fagioli lessi e pane. Tutte preparazioni di recupero che dovevano sfamare nutriti gruppi di persone e che aiutavano a non buttare le rimanenze del pane".
Alla luce di tutto ciò, quali sono i consigli della chef per realizzare un'ottima pappa al pomodoro? Tra i comandamenti, quello più importante riguarda forse il pane: "Che deve essere raffermo, non tostato. Inoltre, pane sciapo toscano, quello senza sale. Il pomodoro va cotto ma non esageratamente, e tra le tante varietà io preferisco il Roma. È una tipologia più succulenta, polposa e a basso contenuto di acqua. L'importante, comunque, è che sia ben maturo."
E allora anche noi, dopo tutto questo racconto che ci ha pure fatto venire un po' di fame, come il Gian Burrasca raccontato da Vamba e impersonato da Rita Pavone ormai 60 anni fa, vogliamo unirci al coro: “Viva la pappa col pomodoro”.