Si tratta di due nomi collettivi che fanno riferimento al mondo della frutta secca e dei semi, da mangiare rigorosamente a fine pasto durante le cene e i pranzi nel periodo natalizio. L'origine del nome è dibattuta ma noi abbiamo trovato un'altra interpretazione, forse un po' più cupa, degli scritti di Matilde Serao che per prima descrive questa usanza.
A Napoli c'è un rito natalizio antico che sembra però anche molto moderno: mangiare le ciociole, ‘o spassatiempo, alla fine di ogni pasto nel periodo di Natale. Ma cosa sono queste ciociole? Ciociole e spassatiempo sono sinonimi ed è un nome collettivo che fa riferimento a datteri, frutta secca, noccioline, nocciole, pinoli, pistacchi, semi di zucca e altre delizie. Anziché fare l'elenco, a Napoli gli adulti ordinano ai più piccoli di prendere "‘o spassatiempo" oppure "‘e ciociole", solitamente disposte ordinatamente su un tavolino a parte, sempre a disposizione ma contemporaneamente sempre inaccessibili. Non è che prendi e pilucchi (spuzzulei sarebbe più adatto) quando vuoi. Le ciociole si mangiano a fine pasto, tutti insieme, anche un po' in hangover da overdose di carboidrati e vino della casa. È antico ma moderno questo rito perché è uno dei più potenti simboli della "vita lenta" tanto di moda negli ultimi tempi. Il loro nome è legato alla convivialità ma stando a uno scritto di Matilde Serao forse abbiamo dato un'interpretazione diversa a questa pietanza, affascinante anche se un po' più triste.
La più famosa citazione di ciociole e spassatiempo è senza dubbio contenuta ne ‘A rumba d"e scugnizze, fantastico brano di Raffaele Viviani del 1932 reso molto celebre da Massimo Ranieri in un'interpretazione fantastica. Qui ‘o spassatiempo fa parte di tutta quella sequenza di canti e urla provenienti dal mercato simulato nella canzone e viene solo citato: non c'è un elenco di ingredienti perché non serve, i napoletani sanno a cosa si riferisce l'autore.
Le ciociole sono quindi noci, castagne, noccioline, mandorle, fichi secchi e tante altre golosità, possibilmente con guscio da sgranocchiare a fine pasto, tra una partita di tombola e l’altra, o durante l’attesa dell’apertura dei regali. Non è raro che le bucce delle ciociole diventino persino segnaposto spartani per le cartelle della tombola. Ma perché le chiamiamo ciociole? L’etimologia del termine è dibattuta. Secondo alcuni, il nome deriverebbe da “sciosciole”, che in napoletano richiama l’idea di cose sciocche o poco importanti. Questo legame etimologico potrebbe riflettere la percezione delle ciociole come il cibo più semplice e meno elaborato di tutto il sontuoso menù natalizio, quasi un "riempitivo" tra piatti più ricchi. Ma proprio nella semplicità risiede il loro fascino.
Altri invece sostengono che ciociole abbia un’origine onomatopeica. Il termine richiamerebbe il suono "cio cio" che le noccioline tostate producono quando vengono agitate tra le mani per raffreddarle, un’usanza comune nei tempi passati, oppure quando le si agita nella busta. Amedeo Colella, scrittore ed esperto di storia napoletana, dice che a Napoli "non è Natale se ogni pasto non termina con questa sequenza di datteri, frutta secca, noccioline, nocciole, pinoli e altre delizie secche: ovvero ‘o spassatiempo". L'autore a Canale 21 dice che una delle ipotesi sul nome starebbe proprio nel tempo che ci vuole nello sbucciare la frutta secca. "I napoletani, per definire questo insieme — prosegue Colella — utilizzano anche un altro termine, ‘e ciociole. Anche qui la lingua è solenne. Sapete che dopo aver sbucciato questo mare di frutta secca resta un disastro, un insieme di scorze. In latino le bucce sono le flacces, e la corruzione di flacces deriva ciocioles, diventate poi ciociole".
La più antica citazione di questo conglomerato gastronomico è del 1884 ed è di Matilde Serao che descrive, anche lei senza elencare i prodotti, questo spassatiempo ne Il Ventre di Napoli: "Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi, di mellone e di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e lo stomaco si gonfia come se avesse mangiato". L'opinione più comune che si dà di questi versi è quella più semplice: il nome spassa-tiempo, ovvero "passare il tempo", deriverebbe proprio dalle lungaggini goderecce perpetuate da chi mangia questi prodotti.
Noi diamo un'interpretazione diversa: è possibile che l'idea di "passare il tempo" della Serao legata a questo prodotto non fosse quella goliardica dei pantagruelici pranzi natalizi ma sia più cupa. I napoletani poveri "con un soldo rosicchiano per mezza giornata "e "lo stomaco si gonfia come se avesse mangiato". Crediamo quindi che per la Serao più che "passare il tempo" l'intenzione fosse quella di "ingannare il tempo", facendo passare mezza giornata in cui non si ha altro che dei semi da mangiare, provando a ridurre al minimo i morsi della fame.