Un nome molto strano per una strada, anche perché di cisterne dell'olio non ce ne sono. Vediamo da dove viene e se c'entra davvero l'olio d'oliva in questa storia.
La toponomastica delle città racconta molto della nostra storia: il passato imperiale di Roma o quello comunista di Livorno, il Rinascimento di Firenze sono validi esempi. A Napoli ci sono moltissime strade che hanno mantenuto i nomi popolari, i nomi con cui le persone comuni si sono riferite a queste vie nel corso dei secoli. La più curiosa strada che ha mantenuto questa nomenclatura ha una connessone con la gastronomia: via Cisterna dell'Olio. Una stradina stretta che collega via Toledo con piazza Dante, Spaccanapoli e la zona del Gesù Nuovo. A prima vista non avrebbe nulla che richiami questo nome così strano, ma se ci fermassimo alle apparenze saremmo tratti in inganno: questa strada si chiama così perché nel 1500 c'erano davvero delle enormi cisterne dell'olio, che servivano come riserva per la città e intramezzo per l'esportazione dell'olio d'oliva.
Questa zona viene riqualificata nella seconda metà del ‘500 per volere di Filippo II, viceré di Spagna, in un grande progetto ideato per migliorare la vivibilità di una città fulcro della corona ispanica. Nel 1588 è affidato all'architetto di corte, Giovanni Vincenzo Della Monica, lo sviluppo di un metodo di conservazione dell'olio d'oliva efficace: sarebbe servito come riserva per la città e come punto d'approdo degli olii pugliesi e lucani prima di essere spediti via mare in Spagna. L'idea di Della Monica è semplice e geniale per il tempo: usare delle enormi cisterne, come si fa con l'acqua, da incassare nel terreno per proteggere l'olio. L'operazione è approvata e così vengono posizionate quattro grandi cisterne nel sottosuolo della via che oggi porta il loro nome.
In realtà il progetto ha breve esistenza: l'olio in questi recipienti irrancidisce rapidamente, è soggetto a furti e perdite, attira la fauna e rischia di favorire la diffusione di malattie. Il periodo è delicato: l'Italia tutta viene da anni di pestilenza che ha decimato la popolazione. La paura è davvero tanta.
Con l'avvento di Pedro Fernández de Castro nel 1610 la città si vede nuovamente costretta a cambiar volto: il nuovo viceré affida la riqualificazione a uno dei più grandi architetti di tutti i tempi, Domenico Fontana. L'artista mette mano al centro storico, abbandonando le cisterne e facendo confluire moltissime strade verso il mare, lì dove sorge la sua opera più importante: il Palazzo Reale di Napoli.
L'epopea delle cisterne dell'olio nell'omonima strada dura solo pochi anni dunque, ma i napoletani non hanno mai abbandonato quella via e ciò che conteneva. Oggi sappiamo di queste cisterne grazie ai disegni di un altro architetto, Giuseppe Astarita, uno dei protagonisti dell'architettura tardobarocca e rococò del Regno delle Due Sicilie. La verità però è un'altra, ancora più affascinante: le cisterne esistono ancora oggi.
Abbiamo infatti parlato di un "abbandono" perché non sono mai state rimosse. Oggi c'è un negozio in questa via con una targa in marmo che testimonia questa "presenza", con relativa capienza della cisterna sottostante, ovvero 125 mila litri. Sul pavimento di questo esercizio ci sono anche due oblò dai quali poter osservare l'antica struttura dall'alto. In alcuni casi, se il titolare del 5A è ben disposto, si può perfino scendere e raggiungere la cisterna, perdendosi in un vero e proprio pezzo di storia della città.
Di fronte c'è un'altra cisterna "visitabile", per così dire: è il cinema Modernissmo, un multisala che ha oltre mezzo secolo costruito nella conca che, un tempo, conteneva la cisterna. A osservare queste due conche c'è un pezzo della storia italiana: palazzo Giovene del Girasole, la casa di Giuseppe Moscati, poi dichiarato santo da Papa Giovanni Paolo II. Una via piccola, diventata famosa grazie all'olio raccolto per pochissimi anni, e che in realtà è stata protagonista inconscia di tantissimi eventi rilevanti per la città partenopea.
In realtà Napoli è piena di queste "conche" che servivano a contenere il cibo: un metodo arcaico e controproducente che affonda le proprie radici nel passato greco. Un esempio molto vicino al nostro tempo sono i chioschi degli acquafrescai che ancora oggi sfruttano gli ipogei greci per avere degli immensi depositi e tenere l'acqua in fresco. Il giornalista e scrittore Pietro Treccagnoli ha chiamato tutte queste conche le "Cisterne dell'Abbondanza": nel suo libro "La pelle di Napoli: voci di una città senza tempo" c'è un capitolo in cui vengono elencate tutte le cisterne nascoste nel sottosuolo, tra moderni esercizi commerciali e palazzi, un viaggio affascinante nella Napoli che fu.