Anche in Italia abbiamo il nostro Tibet. Si tratta del territorio alle pendici del Gran Sasso, nello specifico quello del distretto di Campo Imperatore. Denominato, per la sua conformazione geologica, Tibet d'Abruzzo, non è solo ampie vallate e alte vette montane ma anche tanto cibo. Dagli arrosticini alla pecora alla mugnaia, passando per funghi e tartufi: ricette e prodotti tipici del Parco Nazionale del Gran Sasso.
Dai tempi in cui il noto alpinista e poeta Fosco Maraini lo soprannominò così, il vasto altopiano di Campo Imperatore è conosciuto anche come il Piccolo Tibet, o Tibet d’Abruzzo. E guardando il territorio che caratterizza questo lembo di Centro Italia non si fatica a capirne il perché.
Ci troviamo nell’habitat dell’orso marsicano, nel cuore del vasto Parco Nazionale del Gran Sasso, e dirigendoci verso Campo Imperatore (che trae il nome da Federico II di Svevia, il quale originariamente lo chiamò Campo Imperiale) percorriamo la strada diretta alle pendici della vetta più alta degli Appennini. Sembra quasi di non trovarsi più in Italia, ma in uno di quei territori asiatici alla base della catena himalayana in cui la natura la fa da padrona incontrastata. L’ampia vallata si perde a vista d’occhio, incorniciata dalle montagne che disegnano lo skyline del territorio: questo è il distretto di Campo Imperatore.
È una delle zone più affascinanti, dal punto di vista paesaggistico e naturalistico, del nostro Paese; dall’aria quasi nostalgica, appartenente a un tempo che qui sembra aver fermato le proprie lancette. Cavalli e mucche al pascolo non sono una rarità in una terra dove la natura si erge a protagonista incontrastata e l’uomo, ospite e osservatore, ammira quanto di bello questa frazione di Abruzzo sa offrire. L’altopiano, di origine glaciale, è situato a un’altitudine compresa tra i 1600 e i 1800 metri, si estende per circa 20 chilometri con una larghezza che raggiunge i 7. Il suo fascino in passato ha catturato anche molti registi, al punto da diventare il set di vari “Spaghetti western”.
Il Corno Grande (2912 metri), come un padre silente e attento, osserva tutto dall’alto, quasi ammirando – a metà tra la meraviglia e la sfida – coloro che in tutte le stagioni da Campo Imperatore partono desiderosi di conquistare la vetta. Le neve non dissuade di certo gli appassionati di escursionismo, con gli hicking lovers ad approfittare anzi del periodo autunno/invernale per una scalata più affascinante e al contempo maggiormente complicata e faticosa. Le parole d’ordine rimangono “attenzione massima”, perché arrivare in cima non è impresa semplice, specialmente nella stagione fredda.
Con la giusta dose di allenamento e pazienza però la missione si può portare a termine e, una volta conclusa la lunga camminata, ad attenderci a valle ci sono le specialità gastronomiche abruzzesi. A quelle, abbiate un po' di pazienza, però arriveremo tra poco.
Il Corno Grande rappresenta la vetta principale del massiccio del Gran Sasso, il traguardo più ambito e affascinante per gli amanti delle escursioni. Questo complesso montuoso però offre anche altre “mete”, come il Corno Piccolo, il Monte Aquila o il Monte Portella solo per citarne alcune. La maggior parte degli escursionisti parte da Campo Imperatore per dirigersi verso le cime. Piccola digressione storica: l'hotel presente nel piazzale di Campo Imperatore fu l'ultima prigione di Mussolini, prima di venir salvato dai nazisti nel 1943. All'interno la stanza occupata dal Duce è ancora fornita degli arredi originali e oggi rappresenta un piccolo museo visitato da turisti.
L’escursione può durare anche 6-7 ore, tra andata e ritorno, considerando la partenza da Campo Imperatore (raggiungibile in auto) fino al Corno Grande. Il dislivello totale non è indifferente: 920 metri. Il rifugio Duca degli Abruzzi e il Garibaldi (costruito nel 1886) rappresentano sul tragitto i principali checkpoint per riposarsi e ristorarsi, in attesa di proseguire nel percorso.
La fatica, soprattutto nell’ultimo tratto più ripido e tecnico (ovviato dagli arrampicatori e scalatori più esperti con la via Direttissima) è ripagata dalla splendida vista (meteo permettendo) che da quasi 3000 metri di altezza si disperde sulla vallata sottostante sino ad arrivare al mar Adriatico con la sua costa ricca di trabocchi. Al ritorno, poi, è giusto concedersi la corretta ricarica calorica a base di specialità del territorio.
Per chi non è appassionato di camminate in quota, specialmente in salita, non mancano mete turistiche che fondono arte e storia. Rocca Calascio è una destinazione tra le più battute, così come gli scavi archeologici di Colle della Battaglia. Presso l’antico convento di San Colombo di Barisciano si può visitare il Museo del Fiore, con annesso orto botanico ed erbario. Sono solamente alcune delle destinazioni che vi consigliamo di visitare all'interno del Parco. Ora però, dopo un generale excursus prettamente turistico, ci è venuta fame ed è finalmente giunto il tempo di parlare di cibo.
Siete di ritorno da un’escursione sul massiccio del Gran Sasso? Avete conquistato la vetta più alta del complesso o una delle cime minori? Qual miglior modo per celebrare l’ “impresa” se non legandosi ancor di più al territorio abruzzese gustando le specialità della zona. La tradizione gastronomica qui è povera, rustica, gustosa, spesso molto calorica: tutto quello che ci si aspetta da una località pedemontana dall’importante retaggio contadino e pastorale.
Qualche tempo fa vi avevamo parlato della mortadella di Campotosto, prodotto di un piccolo comune alle pendici del Gran Sasso a specchio sull’omonimo lago. Oggi scopriamo altre prelibatezze di una terra, estesa per lo più tra le province di Teramo, L'Aquila e Pescara, che per quanto riguarda la cucina (di recupero) della carne potrebbe fare da docente.
Per un primo approccio tra natura e cibo nel distretto di Campo Imperatore è presente la zona dei macelli (o delle macellerie), dove presso due chalet è possibile acquistare quanto di buono questo territorio sa offrire. Formaggi, salumi, carni, pane, vino e gli immancabili arrosticini, per un pasto in loco (ci sono tavoli e barbecue a disposizione dei clienti) oppure una ghiotta spesa da riportare a casa assieme al ricordo di un’escursione indimenticabile. Scendiamo però ora più nel dettaglio per scoprire cosa offre dal punto di vista gastronomico il Tibet d’Italia e le zone che fanno parte del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.
Non solo carni a queste altitudini: data la grande presenza di pascoli nelle ampie vallate è possibile trovare pure caratteristici formaggi prodotti in caseifici locali, ma anche coltivazioni di legumi e cereali. Il vasto Parco insomma non offre solo escursioni, sport e montagna, ma anche tanto cibo.
Quali sono i piatti e le ricette tipiche di questa parte di Abruzzo? Cosa si può assaporare intorno ai 44 comuni che fanno parte del Parco Nazionale del Gran Sasso? Il territorio propone un paniere di prodotti e un menu di ricette piuttosto ampio. Andiamo a spulciare alcune tra le specialità locali.
Impossibile non iniziare dagli ambasciatori della cucina locale, i famosi arrosticini di pecora, o meglio rustell. Si tratta di golosissimi spiedini di carne ovina, grassa al punto giusto, cotti sulla brace per un mix di sostanza e gusto pieno, deciso, da accompagnare con un vino rosso locale, magari un Montepulciano Doc. Questi cubetti di carne, dallo spessore di un centimetro e conditi solamente con olio e sale, nascono dalla tradizione pastorizia e sono oggi una delle tipicità più famose della regione. Un mix di semplicità e squisitezza, un must per chiunque passi in queste zone.
Questa terra è anche ricca di formaggi, gran parte dei quali molto antichi. Locande e aziende agricole producono una vasta gamma di pecorini – da quello dei Monti della Laga a quello di Farindola, passando per il Canestrato di Castel del Monte – caciotte e ricotte ovine, frutto di animali che pascolano a oltre 1500 metri di altezza, regalando al latte (e ai suoi derivati) sfumature di gusto dalle spiccate note erbacee e selvatiche. Impossibile non citare il caciocavallo abruzzese, prodotto da latte vaccino a cui viene aggiunto caglio e sale, dalla stagionatura minima di due mesi.
Preparazione tipica dell’Abruzzo montano, di retaggio contadino, la pecora alla callara è uno dei piatti più noti dell’area marsicana. La sua tradizione risale all’epoca delle transumanze dei pastori i quali, durante i tortuosi tragitti, si vedevano costretti a consumare le pecore decedute per la fatica, oppure ferite lungo il percorso e impossibilitate a proseguire. La carne, particolarmente dura, veniva (e viene) prima tagliata a mo' di spezzatino e resa tenera grazie alla lunga cottura, generalmente tra le 4 e le 6 ore, in appositi paioli di alluminio o rame chiamati callare. Il tutto è aromatizzato con erbe selvatiche come timo, rosmarino, alloro, ma anche cipolla, carota e sedano. Al giorno d’oggi questa preparazione conosce principalmente due versioni: con e senza il sugo di pomodoro.
Altra ricetta tipica abruzzese, nuovamente di estrazione contadina, è la pasta alla mugnaia, particolarmente legata alla zona limitrofa a Elice. La sua storia è antichissima e la prima testimonianza scritta risale al 1340. Acqua e farina, almeno in origine, per la preparazione della pasta, mentre oggi non è raro l’utilizzo anche di uova. Se un tempo il piatto era servito in bianco oggi viene usato ragù di maiale o vitello per condire una sorta di spaghettoni lunghi e tozzi.
Un salame composto dai tagli nobili del maiale, aromatizzato con peperoncino. Il caratteristico nome deriva dal ventre dell'animale, in quanto originariamente veniva utilizzato lo stomaco del suino per insaccare il prodotto, conferendogli la peculiare forma subovoidale simile a quella della già citata mortadella di Campotosto. La ventricina fa parte dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (Pat), e la zona di produzione è compresa nell’area del comprensorio dei Monti della Laga e del Gran Sasso. Si produce essenzialmente in autunno, per essere pronta all’inizio dell’inverno.
Le aree all’interno del Parco sono una ricchissima riserva di legumi e cereali, nella maggior parte a marchio Pat e presidi Slow Food. Farro, lenticchie (in particolare quella di Santo Stefano di Sessanio), ceci, fagioli (varietà ciavattone); ingredienti alla base di saporite zuppe o minestre garanzia, durante i mesi invernali, del giusto apporto calorico e di gusto. Il farro, in particolare, viene anche commercializzato a granella intera, perlato, in farina o sotto forma di gallette.
Il clima di queste zone è decisamente favorevole per lo sviluppo di varietà fungine edibili ma anche di preziosi tartufi, di cui l’Abruzzo risulta tra i principali produttori a livello nazionale. Accanto allo scorzone e al tipico tartufo estivo non è raro trovare anche il nero pregiato e, in alcune parti, anche quello bianco. Prataioli, cantarelli, pleuroti, russole sono invece le specie di funghi più diffuse, senza dimenticare l’immancabile porcino.
Un piatto che incarna l’essenza del detto “del maiale non si butta via niente”. Nome peculiare per questo spezzatino delle parti meno pregiate del suino (tra cui orecchie, coda, cotiche, piedi) sminuzzate a tocchetti (da qui ‘ndocca) per favorirne la cottura. Il tutto viene insaporito con rosmarino, aglio, pepe e finocchietto. Un bene rifugio, un tempo in grado di garantire ai contadini l’utilizzo di parti dell’animale altrimenti destinate allo scarto. Non sarà certo una ricetta che vi riempirà gli occhi, ma è una preparazione che nasce da un’esigenza precisa in un periodo in cui per auto sostenersi bisognava avere forte capacità di adattamento, anche gastronomico. Un emblematico esempio di arte (culinaria) povera.