La tradizione si evolve ma, almeno a Natale, resta molto fedele a quella di 100 anni fa. Una cosa abbastanza rara in cucina dove basta una sola generazione per cancellare una tradizione gastronomica. Il Natale a tavola però non si cancella, al massimo evolve.
Il Natale, con il suo carico di simbolismo e tradizione, non è solo una festività religiosa e culturale, ma anche un momento di celebrazione che si consuma, letteralmente, attorno alla tavola. C’è chi vive questo periodo con entusiasmo e chi lo affronta con maggiore distacco, ma per capponi, tacchini, oche e maiali, il Natale rappresenta una condanna inevitabile da sempre. Sono loro, infatti, i protagonisti dei menu natalizi, sacrificati per il rito di abbondanza che si rinnova ogni anno, espressione di una tradizione profondamente radicata nella storia italiana. Eppure quelle tradizioni che oggi ci sembrano intoccabili un tempo erano diverse: magari non diversissime ma col tempo tutto cambia.
Secondo Paolo Sorcinelli, ex docente di Storia sociale all'Università di Bologna, il Natale, a partire dai primi decenni del Novecento, era una delle poche occasioni in cui le famiglie italiane potevano abbandonare il rigore alimentare quotidiano e concedersi un momento di trasgressione a tavola. Era un lusso straordinario per una società prevalentemente contadina e povera, che viveva in condizioni di ristrettezza economica inimmaginabili. Il vero peccato, in quei tempi, si consumava proprio a tavola, dove per un giorno ci si permetteva di "mangiare a crepapancia". L’abbondanza non era necessariamente sinonimo di prelibatezza; piuttosto si celebrava la quantità e la varietà dei cibi secondo quanto scrive Focus. Anguille, baccalà, noci e castagne, che durante l’anno venivano centellinate, si trasformavano in protagonisti della grande abbuffata natalizia.
Anche nei momenti più difficili, come nel Natale del 1836 in una Napoli funestata dal colera, la tavola rimaneva un baluardo simbolico. Una canzone popolare ammoniva i napoletani sul rischio di consumare il capitone, associandolo al terribile carro dei colerosi: "Chi se mangia ‘o capitone, jarrà dinto a ‘o carrettone" (Chi mangia il capitone andrà a finire nel carro) ma la tradizione gastronomica resisteva. Mangiare, anche in condizioni di pericolo, rappresentava un atto di ribellione simbolica contro la paura e la morte, una forma di esorcismo collettivo per scongiurare il destino avverso che è un mantra filosofico molto comune nelle storie napoletane e radicato nella cultura partenopea. Secondo la medicina dell'epoca il colera poteva passare all'uomo tramite il capitone che si nutriva di pesci e molluschi "infetti", in cui il germe responsabile della malattia prosperava. Furono fatte massicce campagne di comunicazione, con illustrazioni in cui i capitoni cascavano dai carri in cui erano adagiati i cadaveri morti di colera. In realtà abbiamo poi scoperto che il capitone è un animale molto poco sensibile all'inquinamento e infatti la noncuranza dei napoletani verso questa campagna "denigratoria" non ebbe alcun impatto sulla salute pubblica.
Nella società contadina invece il cibo del Natale era strettamente legato ai ritmi della vita agricola. Ogni pietanza portata in tavola aveva una storia che affondava le radici nella preparazione e nella conservazione degli alimenti durante l’anno. Il maiale, ad esempio, era una risorsa fondamentale: dalle sue carni si ricavavano salsicce, cotechini e salumi, che venivano accuratamente conservati per i mesi invernali. I fichi secchi e l’uva passa erano il frutto di una sapiente lavorazione e venivano consumati come dolce accompagnamento, simbolo di dolcezza e prosperità. La tavola di Natale, dunque, era il risultato di un anno di lavoro, un momento in cui il sacrificio e l’attesa trovavano compimento.
Il rituale gastronomico iniziava tradizionalmente il 24 dicembre, giornata dedicata al "mangiare di magro". In molte regioni italiane, questo significava preparare piatti a base di pesce, come il baccalà e l’anguilla, che fungevano da preludio alla grande festa del giorno successivo. In alcune zone, però, si rompeva la tradizione del digiuno con piatti sostanziosi: in Lombardia, ad esempio, si serviva la trippa per "preparare lo stomaco" alla festa. Sempre la vigilia, si iniziava a preparare il brodo, che il giorno di Natale avrebbe ospitato i cappelletti in Romagna e i ravioli in Lombardia, accompagnati spesso dal bollito o dal cappone lesso, simboli di ricchezza e abbondanza. Oggi il cenone della Vigilia viene visto come un retaggio culturale del Mezzogiorno ma un tempo si faceva in tutta la nazione, con piatti differenti a seconda della regione.
Anche il dolce natalizio era intriso di simbolismo. L'antenato del panettone moderno, come ricorda Stanislao Porzio, esperto di tradizioni gastronomiche, era un semplice pagnottone di farina bianca, un lusso straordinario per un’epoca in cui il pane di mistura, fatto di granaglie a basso costo, era la norma. Questo dolce veniva preparato in casa e consumato spesso al ritorno dalla messa di mezzanotte. La tradizione affidava al membro più anziano della famiglia l’onore del primo taglio, mentre una fetta veniva riservata per il primo povero che avesse bussato alla porta, un gesto di solidarietà e speranza per il nuovo anno.
Nella letteratura gastronomica, il Natale trova una celebrazione significativa nelle parole di Pellegrino Artusi, che descrive il cappone come un animale che "per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini". Questa immagine evoca il sacrificio rituale e il senso di gratitudine che caratterizzano la festa, dove ogni pietanza diventa portatrice di un significato simbolico, volto a propiziare l’abbondanza e il benessere per l’anno a venire.