"Il 90% della carne in macelleria o al supermercato viene da un sistema che infligge agli animali violenze indicibili e i consumatori devono saperlo. La Pianura Padana è a un passo dal disastro ambientale. L'Europa è complice: da un lato pone obiettivi di riduzione delle emissioni, dall'altro finanzia a mani basse questo sistema".
Il tema degli allevamenti intensivi per l'Italia diventa sempre più pressante: dopo gli allarmi sui preoccupanti livelli di inquinamento della Pianura Padana, il documentario di Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi, Food for Profit, getta nuova luce non solo sul sistema di crudeltà indicibile degli allevamenti europei, ma anche sui legami che le istituzioni comunitarie hanno con i produttori, da cui non riescono a svincolarsi. L'Europa, infatti, mentre pone obiettivi di riduzione delle emissioni nocive e dell'inquinamento di suolo e acque, dall'altro lato finanzia massicciamente un sistema che sa essere al 90% fatto da allevamenti intensivi. E lo fa glissando proprio sulla definizione di allevamento intensivo. La nostra intervista a Giulia Innocenzi.
Il Made in Italy come scusa per finanziare un sistema che fa comodo a tutti: allevatori, perché consente loro di produrre a costi bassissimi senza occuparsi delle conseguenze, e ai consumatori, perché permette di consumare carne a prezzi molto bassi senza porsi limiti. Carne dalla dubbia importanza nutritiva, carne che viene prodotta con sofferenze indicibili, carne che inquina territorio e falde acquifere. Ma tutto questo i consumatori non lo sanno, perché le nostre istituzioni, nazionali ed europee, sono "complici" di questo sistema. È un fiume in piena Giulia Innocenzi, reduce dalle varie presentazioni di Food for Profit, documentario realizzato con Pablo D’Ambrosi che mostra come oggi, in Europa, il 90% della carne venga da allevamenti basati sulla crudeltà e sullo sfruttamento del territorio. Nel reportage si vedono atti di violenza incredibili verso gli animali, trattati a dir poco come cose e spesso anche insensati: polli presi a calci, sbattuti al muro, animali costretti ad affogare nelle proprie deiezioni, solo per citare qualche scena.
"Al Parlamento europeo non conviene dare una definizione di allevamento intensivo perché andrebbe contro gli interessi della quasi totalità dell’industria zootecnica" ci racconta la giornalista. "L’ambiguità è proprio quello su cui giocano produttori e istituzioni, negando così di avere su suolo europeo gli allevamenti intensivi". E invece, il 90% (il 95% del caso dei polli) viene proprio da questo sistema.
"Il 90% della carne europea è da allevamenti intensivi. Se non c’è scritto biologico è sicuramente da allevamento intensivo e a volte non basta, perché non è detto che i mangimi biologici siano dati ad animali che poi siano liberi di razzolare, o che abbiano spazio a sufficienza per farlo. Per esempio il latte biologico non proviene da animali allevati con metodo biologico o all’aperto". Chi fa la spesa "al supermercato o in macelleria deve sapere che il 90% dei prodotti animali vengono da allevamenti intensivi, il 95% se si parla di polli, se parliamo di ovini caprini la percentuale si abbassa leggermente. Sarebbe molto semplice mettere un’etichetta con su scritto ‘da allevamento intensivo' o al contrario ‘da allevamento estensivo'. Questa cosa non si fa perché non conviene far sapere al consumatore che la quasi totalità dei prodotti di origine animale che compra sono da allevamento intensivo".
A fronte dell'aumento di un dibattito pubblico sul tema, almeno in apparenza, non c'è nessuna tendenza alla riduzione dei finanziamenti a questo sistema: mentre l'Europa fissa obiettivi di riduzione delle emissioni nocive, allo stesso tempo finanzia il sistema degli allevamenti intensivi, fra le cause principali – se non la principale – degli elevati livelli di inquinamento globale.
Spesso noi italiani pensiamo di essere fuori da questo problema, perché siamo un Paese che vanta molti controlli sulla produzione di cibo e sulle importazioni: ci lamentiamo del grano canadese ma non sappiamo che la carne che mangiamo è praticamente tutta da allevamenti intensivi. Gli stessi che stanno devastando la Pianura Padana. "La condizione della Pianura Padana e delle zone limitrofe è già oltre i limiti – spiega Innocenzi – Chi va nel triangolo Brescia-Cremona-Mantova, che sono le 3 province con più allevamenti di maiali, si rende conto subito del fatto che non ci sia quasi più spazio fra un allevamento e l’altro. Gli allevamenti sono in condizioni pessime, con strutture fatiscenti e sversamenti di liquami incontrollati. La Pianura Padana è già una delle zone più inquinate d’Europa e per salvarla dovremmo iniziare a dismettere quelle produzioni: incentivare gli allevatori ad abbandonare il loro modello e farli convertire in altro. Sarei felice di sovvenzionare con le mie tasse un movimento del genere: qualche pioniere c’è già, ad esempio coloro che hanno dismesso gli allevamenti intensivi per coltivare funghi. Invece oggi parte dei nostri soldi va a sovvenzionare questi allevamenti ed è una cosa intollerabile.
E, dopo la Pianura Padana, la nuova terra di conquista è una regione che ha una tradizione altrettanto lunga, anche se non famosa, quanto quella del Centro Nord Italia: la Puglia. "Avendo finito lo spazio, adesso si punta sulla Puglia, dove le superfici colonizzabili non mancano di certo. Naturalmente si continua ad affollare anche le zone tradizionalmente votate all’allevamento, come per esempio il Piemonte, ma senza consultare i comitati di cittadini, neanche nel caso di proteste".
Come si coniuga questa visione con un Paese come l’Italia che fa un vanto delle sue produzioni di salumi e formaggi? "È un vanto e non dovrebbe esserlo, perché se si guardano i disciplinari si nota che la gran parte non prevedono divieti sull’allevamento intensivo, ciò significa che di fatto quei salumi vengono dagli allevamenti intensivi. Per prima cosa si dovrebbe dire la verità agli italiani, anziché difendere l’indifendibile solo per fini elettorali".
Come spesso ricordiamo, un prezzo troppo basso è indicatore (anche e non solo) della qualità di un prodotto. Ma è altrettanto vero che c'è un gap economico fra chi può permettersi di "scegliere" determinati tipi di alimenti e chi deve accontentarsi: "È vero che la differenza di costi esiste ed è innegabile, ma è lo Stato che la incentiva: basti pensare che il latte vegetale è tassato al 22%, come un bene di lusso, mentre il latte di vacca è tassato al 4%, come bene di prima necessità. Per questo dovremmo spingere lo Stato a incentivare l’alimentazione a base vegetale, che poi è quella meno inquinante: la dieta vegana in primis, poi la cvegetariana e infine la Dieta Mediterranea". Per optare per un'alimentazione etica e sostenibile "basterebbe non comprare i prodotti più processati, per esempio i salumi, e preferire un’alimentazione in cui siano presenti molti legumi o cereali integrali: così il costo si abbassa notevolmente".
Per fare un salto in avanti, però, "servirebbe che lo Stato smettesse di sovvenzionare questo tipo di allevamenti e i costi aumenterebbero notevolmente, mettendo in evidenza qual è il giusto prezzo da pagare per prodotti di origine animale. Oggi invece queste produzioni sono così competitive perché sovvenzionate da organismi nazionali o comunitari".
Andrebbero dati degli incentivi per la transizione ecologica della dieta, ovvero "incentivare chi produce e chi consuma a orientarsi verso la dieta vegana: è questa quella considerata meno inquinante da molti organismi sovranazionali, poi vengono quella vegetariana e quella Mediterranea. Invece, al contrario, stiamo incentivando i consumatori a mangiare sempre più carne, non solo attraverso i soldi della Politica agricola comune, quindi con soldi che vanno direttamente ai produttori, ma anche attraverso il finanziamento delle pubblicità dei Consorzi dei salumi e dei formaggi, che valgono centinaia di milioni di euro". Questo vuol dire che l’Europa, "a fronte delle affermazioni dell’Oms in cui si dice che le carni lavorate sono cancerogene (ndr, ‘Secondo i dati dell'Oms, che è molto cauto su questo tipo di calcolo, il consumo quotidiano di 50 grammi di carni lavorate può aumentare del 18% il rischio che compaia un cancro al colon-retto'), chiede comunque ai consumatori di incentivare questi consumi. È paradossale e l’unica spiegazione è che le lobby dei produttori sono davvero potenti".
Il tema sul piatto è rinunciare totalmente alla carne o il messaggio sulla riduzione dei consumi può essere considerato un’alternativa valida? "In realtà la Dieta Mediterranea annovera un consumo di carne molto moderato, basterebbe tornare a quella per ottenere dei risultati importanti, non è obbligatorio diventare vegani. La soluzione la trova ognuno di noi, dopo aver fatto una riflessione. Dal punto di vista ambientale una riduzione del consumo sarebbe già un grande passo avanti, ma questo certo non risolve il problema etico, ovvero la morte dell’animale".
Dopo l'uscita del film, oltre al seguito inimmaginabile che ha ottenuto il lavoro di Innocenzi e D'Ambrosi, sono arrivate anche delle critiche: alcune sui dati, altre sulla "cattiva pubblicità" che un prodotto come questo farebbe al Made in Italy. "Mi fa molto ridere quando si parla di lobby vegana e sarebbe bello se esistesse, ma assicuro a tutti che difendere questo punto di vista non paga, anzi. Non è il mondo vegano quello a cui uno si rivolge se la sua priorità sono i guadagni. Esistono delle associazioni che fanno un lavoro bellissimo, ovvero quelle che già dagli anni ‘70 si battono in difesa degli animali, ma non c’è paragone fra l’essere sostenuti da donazioni di cittadini e l’essere al centro di un sistema globale di finanziamento. C’è una evidente sproporzione e una differenza di interessi che è importante. Fa ridere l’espressione ‘lobby vegana' perché serve a gettare fango su un lavoro importante svolto da persone che ci credono".
Non si tratta di criminalizzare ma di "far luce su un intero sistema che i politici non vogliono smantellare: qui non si denunciano singole mele marce, ma un sistema intero, non si tratta di casi isolati. È molto importante capire che tutto il sistema si basa su questo metodo: ci sono indagini aperte da anni che lo dimostrano". Insomma, non è più possibile dire che il sistema italiano sia diverso da quello americano o cinese.