Con questo termine si indica in romanesco la parte iniziale dell'intestino tenue del vitellino da latte, una frattaglia utilizzata soprattutto per la preparazione dei rigatoni con la pajata che è stata vietata per ben 14 anni.
Quando si sente nominare il termine pajata subito si associa a una specialità tipica romana, i rigatoni con la pajata anche se, probabilmente in tanti, non hanno bene idea di quale sia l’ingrediente principale. Tecnicamente, infatti, con pajata si intende in romanesco quella che in italiano viene chiamata pagliata, la prima parte dell'intestino tenue (il duodeno) del vitellino da latte che conserva al suo interno il chimo, uno dei risultati della trasformazione gastrica degli alimenti, che in questo caso è composto dal latte materno di cui si è nutrito l’animale: ha un colore biancastro, la consistenza densa, particolarmente nutriente e il sapore intenso, erbaceo.
Nonostante sia considerato dagli estimatori una prelibatezza, a qualcuno potrebbe far storcere il naso, visto che si tratta di una frattaglia che contiene un prodotto derivante dalla digestione del cibo. Lo sapeva bene l’Alberto Sordi del Marchese del Grillo, che in una famosa scena del film di Mario Monicelli porta in una trattoria la cantante lirica francese Olimpia (l’attrice Caroline Berg) per farle provare i rigatoni: quando lei gli chiede cosa siano, lui risponde “Meglio che non te lo dico sennò… Mangiali prima”, per poi rivelare, dopo qualche forchettata particolarmente gradita dall’ospite, che si tratta di “merda de vitella, so budella, tu volevi sapè che era, è merda”, facendola restare particolarmente interdetta.
Come si prepara? La pajata viene pulita accuratamente del grasso che avvolge il pacchetto intestinale, per poi dedicarsi a eliminare la pellicina che riveste il tenue. Un’operazione che solitamente svolge il macellaio, così da averla già pronta per essere cucinata: il lungo intestino si porziona in sezioni più corte che si legano con le loro estremità o con del filo da cucito a formare una specie di ciambellina o salsiccia arrotolata, così da non far uscire il ripieno. Si mettono in casseruola con un soffritto di cipolla, si sfumano con vino bianco e poi si fanno cuocere nella passata di pomodoro arricchita da peperoncino fresco per circa 2 ore. Infine si aggiungono i rigatoni e si fa insaporire con una generosa spolverata di pecorino romano.
L’origine della pajata è strettamente legata all’uso in cucina del quinto quarto del bovino, ovvero gli scarti della macellazione, particolarmente diffuso a Roma e nel Lazio (basta pensare alla trippa), e che diversi storici fanno risalire a una consuetudine giudaico-romana del Ghetto. Quel che è certo è che alla fine del ‘700 le frattaglie sono un alimento povero, non per nobili o borghesi, ma destinato al popolo: nel corso dell’800, con la nascita dei mattatoi che sono posizionati fuori dal centro per motivi igienici (a Testaccio arriva nel 1890), diventano parte del compenso dei lavoratori più umili, detti scortichini o vaccinari, adibiti allo scuoiamento dei capi di bestiame, che li portavano nelle case o nelle osterie per farseli preparare. Non è un caso, infatti, che tra i ristoranti dove apprezzare ancora oggi il quinto quarto come da tradizione, tra rigatoni con la pajata e coda alla vaccinara, ci sia Checchino dal 1887, una trattoria storica che si affacciava proprio sul macello del rione – chiuso nel 1975 e convertito in uno spazio espositivo – dove approdavano le interiora degli animali. Con la pajata non si realizzano solo i celebri rigatoni: si gusta anche come secondo piatto, al forno con le patate o in umido.
Simbolo della romanità più autentica, la pajata in realtà per ben 14 anni è stata bandita dalle tavole per un divieto emanato dell’Unione Europea nel 2001 all’interno dei provvedimenti contro l’epidemia di mucca pazza, ovvero l’encefalopatia spongiforme bovina che aveva causato una vera e propria mattanza di bestiame. Dato che l’assunzione di bovini contaminati poteva rappresentare anche un pericolo per la salute dell’uomo, vennero proibiti la vendita e il consumo di cervello e frattaglie fino al 2015, quando si ebbe la riabilitazione dopo anni di proteste, con l’Italia dichiarata “paese a basso rischio”. Per ovviare a questa privazione, nei ristoranti il piatto tipico divenne a base di agnello o di abbacchio, versioni ormai considerate comuni.
Se, quindi, in caso di necessità, il vitello può essere sostituito, non si può dire altrettanto sul formato di pasta: la pasta con la pajata si fa solo con i rigatoni. Non sono ammesse varianti come succede per esempio con la cacio e pepe, dove si alternano soprattuto spaghetti o tonnarelli, con la carbonara, con spaghetti o rigatoni, o l’amatriciana, con scelta tra bucatini, spaghetti o rigatoni.
Qualcuno ricorda “il patto della pajata”? Il linguaggio giornalistico aveva preso in prestito questo piatto iconico di Roma per descrivere il cosiddetto “pranzo della pace”, avvenuto nel 2010 tra Umberto Bossi e il sindaco Gianni Alemanno, suscitando la rabbia dei romani in quanto il leader della Lega si era sempre espresso con epiteti poco lusinghieri sulla città e i suoi abitanti.