Conquistatori, combattenti, politici ma anche grandi forchette. Gli antichi Romani, in particolar modo le classi elitarie, a tavola ci davano davvero dentro, consumando cibi per noi quasi inconcepibili. Cervello di donnole, ghiri e fenicotteri tra i più "strani".
Schiavi, soldati, gladiatori, politici, mercanti, re e imperatori. Se fino a oggi siete stati abituati a vedere gli antichi Romani sotto queste “vesti”, stavolta vi proponiamo i nostri "antenati" sotto un’altra ottica: quella gastronomica. I signori dell’aristocrazia soddisfavano gusti a dir poco pantagruelici: amanti dei vizi e degli agi più smodati, non ultimo quello per il cibo. E, leggendo alcune delle ricette diffuse specialmente attorno al I-II secolo dopo Cristo, cibo decisamente "anomalo", almeno per i nostri gusti.
Le tavole delle ricche domus erano imbandite delle specialità più disparate: da cibi “locali” e a noi famigliari a quelli più esotici, ricercati e costosi, autentici status symbol a emblema e ostentazione della ricchezza di famiglia. Scopriremo come alcune delle prelibatezze, considerate tali dagli antichi Romani, oggi ci farebbero a dir poco storcere il naso, se non rabbrividire.
Se vi ha fatto impressione leggere, nelle passate settimane, notizie sull’arrivo nel mercato italiano della carne di coccodrillo o delle cavallette, probabilmente è meglio che non proseguiate per questo articolo. Se invece non siete rimasti scandalizzati da cibi strani come, per esempio, il durian, i percebes, l'uovo centenario o il frutto “dalla chioma sudicia”, probabilmente il vostro stomaco è pronto per un’abbuffata (si intende, ideale) di alimenti tipici dell’antica Roma aristocratica.
Grazie a film e prodotti mediali vari, documentari compresi, ma anche dipinti o statue abbiamo imparato a vedere i nostri antenati sotto un’aura mitica, eroica: gladiatori, re, imperatori, soldati e combattenti agire ora tra le vie di Roma o dell’Impero, ora nelle arene, nel Foro oppure tra i mercati. Siamo stati abituati a vederli combattere, discutere di politica, tradirsi a vicenda o stringere alleanze. Li abbiamo visti effettuare sacrifici agli dei, per ingraziarsi il Fato oppure per cercare di predire il futuro prima di qualche battaglia o delicata decisione riguardante la res publica.
Eppure l’arte romana è piena di scene di banchetti, ma probabilmente non ci siamo mai concentrati a dovere su ciò che i nostri antenati mangiassero. D’accordo, sappiamo che gli antichi (un po’ come noi, del resto) fossero particolarmente amanti del vino (anche se il loro era molto diverso dal nostro, ben più dolce grazie all’aggiunta di zucchero e spesso mescolato con acqua), ma è su particolari (e ricercatissime) materie prime che la loro alimentazione si discostava molto dalla nostra.
Immagini di banchetti più o meno lauti ce le abbiamo forse un po' sfocate, al punto che se qualcuno ci chiedesse cosa ci fosse nei piatti, siamo sicuri saremmo in grado di rispondere?
Di certo le tavolate dei Romani, parliamo dei ricchi signori, erano popolate da pesci, carni, pani, cereali e frutta, ma in questo nostro approfondimento vogliamo andare più a fondo, alla scoperta di cibi veramente inusuali. Andiamo quindi a vedere degli alimenti tipici, ma per le nostre abitudini stranissimi, degli antichi abitanti di Roma.
In quanto Impero la molteplicità di alimenti dell’antica Roma (intesa nella sua totalità “internazionale”) è stata varia e variegata. Basti pensare che poco dopo l’anno 100 l’estensione dei territori romani toccava i 5 milioni di chilometri quadrati, con una popolazione capace di sfiorare le 120 milioni di unità. Tutto il bacino del Mediterraneo praticamente faceva parte di Roma, con insediamenti e colonie che penetravano nell’attuale Egitto toccando anche le sponde del Mar Caspio, arrivando fin in Britannia. Si capisce, in sostanza, come quest’immensa quantità di territori comprendesse un’altrettanto grande “offerta gastronomica”, tra ricette e materie prime. Al chilometro zero, insomma, i ricchi signori preferivano il chilometro ampio. E i cuochi potevano sbizzarrire la loro fantasia in cucina.
Dopo tutto questo preambolo, però, andiamo alla scoperta di alcuni degli alimenti (per noi) più strani parte della dieta dei Romani di ceto medio/alto. Per dimenarci al meglio tra le numerose ricette e materie prime di cui disponevano abbiamo consultato anche il De Re Conquinaria, considerato il primo grande ricettario a noi pervenutoci e attribuito ad Apicio, figura considerata gastronomo, cuoco, viveur e grande forchetta della Roma imperiale del primo secolo dopo Cristo (anche se, in realtà, il libro sembra più essere una raccolta composta nel corso di tre/quattro secoli e databile attorno al 380 d.C.).
Il De Re Coquinaria è una sorta di "Bibbia" per tutti gli appassionati di cibo della Roma imperiale: contiene tantissime ricette e preparazioni di due millenni fa, alcune delle quali a base di ingredienti che non vi immaginerete nemmeno. Un esempio? Ghiri, pavoni o mammelle di scrofa.
Cosa si mangiava quindi nella Roma antica? Dimenticatevi carbonare, carciofi fritti o abbacchio allo scottadito, non è ancora tempo per il loro arrivo. In questo viaggio scopriremo nonostante tutto come anche duemila anni fa gli chef sapessero essere creativi utilizzando ingredienti per noi inusuali. Vi avvisiamo però da già ora, proseguite solo in caso di stomaco particolarmente forte.
Le tavole dei signori romani spesso si popolavano di polpette a base di carne di delfino. Il mammifero marino era particolarmente ricercato e in cucina era una vera e propria prelibatezza, accompagnato per lo più con della salsa al vino. Queste polpette, generalmente, venivano realizzate con spezie, pepe e menta.
Animale che probabilmente noi nemmeno ci sogneremmo di mangiare, eppure i ghiri al tempo della Roma antica venivano allevati per scopi alimentari. In particolar modo la specie Myoxus glis (o ghiro commestibile) era quella più ricercata, una prelibatezza protagonista sulle tavole dell’aristocrazia. Catturati e fatti ingrassare con un’alimentazione a base di noci, castagne e ghiande, raggiunto il peso desiderato venivano cotti e disossati. Apicio, in particolare, nel suo ricettario ci presenta la ricetta dei ghiri farciti con battuto di carne di maiale, conditi con pepe e garum (salsa di pesce fermentato, simile alla nostra colatura di alici) poi cotti nel forno antico.
Il pavone, un animale maestoso specialmente quando mostra la sua stupenda coda e allo stesso tempo così ricercato dalle nobili corti romane, al punto da venir allevato per essere sottoposto a ingrassamento. Gli antichi Romani andavano matti per questo pennuto, tanto da consumarne anche la lingua, ma la carne rappresentava un autentico status symbol della romanità elitaria. I piatti a base di pavone, in quanto a gradimento, superavano le preparazioni di coniglio, aragosta o maiale, e pure le uova ebbero un grande utilizzo in cucina. Particolarmente prelibati e ricercati anche i fenicotteri.
Se vi sembra un altro ingrediente non convenzionale, pensate che ancora oggi in Valle D'Aosta viene realizzato un salume, il teteun, a base di mammelle di mucche. I nostri amici Romani erano invece soliti utilizzare quelle delle scrofe, meglio se sterili per mantenere le carni “incontaminate” sia per quanto riguarda il gusto sia la consistenza. Uno dei condimenti più diffusi? Quello con pepe, semi di sedano, menta, miele, aceto, il tutto servito nel brodo.
Oggi (anche) simpatici animali da compagnia, eppure un tempo pietanza ricercata e utile per lo più a impressionare gli ospiti di un eventuale banchetto presentando loro animali, e colori, esotici. E, purtroppo per loro, i poveri pappagallini venivano “sacrificati” per questo scopo più scenico che gastronomico. Arrostiti e serviti con frutta secca e spezie, non era raro che venissero proposte a parte le lingue. Grazie ad Apicio sappiamo come la carne di pappagallo potesse anche essere brasata e accompagnata con i datteri, altro prodotto particolarmente esotico.
Nell'attualità animali per lo più selvatici, un tempo le donnole erano considerate una specie domestica, casalinga, alla stregua dei nostri gatti. Sia perché con la loro presenza erano in grado di spaventare eventuali roditori, sia perché erano abili cacciatori di animali così infestanti. Non solo da compagnia, però, la donnola era anche una specialità in cucina. Racconti parlano del consumo del cervello (essiccato e servito con una bevanda) come ottimo rimedio contro l’epilessia. Fu Plinio il Vecchio, in particolare, a sostenere questa tesi, affermando come le stesse proprietà fossero attribuibili pure al furetto. Stando allo scrittore e naturalista romano, inoltre, un epilettico poteva guarire anche cibandosi del primo nato di una nidiata di rondini oppure di carne di cucciolo di cane ancora lattante. Queste teorie, fortunatamente, vennero poi smontata attorno al V secolo. La carne della donnola, inoltre veniva considerata una soluzione anche al morso di serpenti. Poveri animaletti, così vittime di fake news d'antan…
Ovviamente prima di giudicare i gusti dei nostri antenati dovete considerare come, 2000 e oltre anni fa, le abitudini alimentari fossero totalmente diverse da quelle attuali. Provate a immaginare come, magari tra altri due millenni, qualcuno studiando il nostro ricettario potrebbe rimanere sbigottito, quasi sgomento, di fronte ad alcune delle preparazioni che vi abbiamo proposto nel libro. Cosa direste a chi, in futuro, considererebbe strane ricette come la lasagna, la pizza, la pasta ‘ncasciata o i rotolini di pollo al forno? Mai, insomma, giudicare dalle apparenze.