Un ristoratore può vietare l'ingresso a un cliente solamente in base al suo abbigliamento? Si può imporre un dress code per mangiare in un locale? Che cosa dice la legge in merito.
Un ristoratore può vietare l'ingresso nel suo locale a un avventore vestito in modo considerato non consono? L'abbigliamento rientra tra i validi motivi per cui l'esercente può non fornire un servizio a un potenziale cliente? Cosa dice la legge.
"Non ammessa al ristorante perché in tuta". È questa l'accusa di Andrea Delogu, presentatrice televisiva, mossa nei confronti di un locale romano. Il fatto è avvenuto pochi giorni fa: la donna in abbigliamento sportivo, si è recata in una trattoria dove, però, non è stata ammessa perché a detta dei gestori (che l'avevano squadrata in malo modo, secondo la sua versione) era tutto pieno. A questo punto la Delogu, allontanatasi, ha telefonato per riservare un tavolo: risultato? Prenotazione a buon fine.
Facendo due più due, la presentatrice è arrivata alla sua conclusione: non era stata accolta nel locale perché vestita in tuta, un dress code evidentemente ritenuto non consono dai gestori della trattoria. Il tutto è stato denunciato via social dalla donna e diventato virale in poche ore.
Va detto, per dovere di cronaca, come sia arrivata anche la replica del gestore del ristorante: la Delogu non è stata fatta accomodare proprio perché il locale era full e non per altri motivi. Tantomeno riconducibili all'abbigliamento. Da questa vicenda di cronaca comunque sorge il dubbio: un ristoratore può vietare l'ingresso nel suo locale a un cliente vestito in modo non adeguato? Si può imporre una sorta di dress code? Che cosa dice la legge a riguardo?
Per cercare di approfondire la questione bisogna partire dall'articolo 187 del Regolamento per l'esecuzione del TULPS (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). Questo specifica come: "… Salvo quanto dispongono gli artt. 689 e 691 del codice penale, gli esercenti non possono senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo”.
Di fatto, è lo stesso articolo che avevamo preso in considerazione per trattare il tema dei ristoranti childfree. Qui si parla di esercizi commerciali in generale, e nella categoria rientrano anche quelli del settore ristorativo. Di fatto nessuno può essere allontanato da un’attività o può essergli impedito di entrare poiché, salvo rarissime eccezioni, ognuno ha diritto di ricevere una prestazione a fronte del pagamento del prezzo del servizio. Il rischio per l'esercente? Se il rifiuto di servire un cliente non è legittimo, può essere una contravvenzione il cui importo va da 516 a 3.098 euro.
Tutto, insomma, ruota attorno al concetto di "legittimo motivo", anche se questo non viene espressamente descritto. L'abbigliamento, un eventuale outfit poco adeguato alla situazione, può rientrare tra questi legittimi motivi?
Uno di questi potrebbe essere, per esempio, l'imminente chiusura del locale, oppure (per l'appunto, tornando al fatto di cronaca sopra descritto) qualora il ristorante non abbia disponibilità di posti. È legittimo, inoltre, allontanare un cliente nel momento in cui, col proprio atteggiamento, turbi la sicurezza o la quiete dei presenti.
In alcuni casi, comunque, può reputarsi legittimo il rifiuto anche se il modo di vestire del cliente non venga giudicato conveniente. Quali possono essere questi casi? Quando un abbigliamento può essere una discriminante per l'ingresso o meno nel locale? Nelle eventualità in cui, per esempio, il vestiario non sia consono alle norme sul buoncostume e il decoro (un po' come avvenuto questa estate in Spagna). L'avventore, insomma, potrebbe non essere accolto per eventuali nudità o parti del corpo eccessivamente scoperte.
Come ci hanno spiegato anche l'avvocato Eugenio Adabbo e Raffaele Cardillo, oggi chef e ristoratore napoletano con un passato da avvocato, l'esercente di un esercizio pubblico (qual è il ristorante) non può vincolare l'attuazione di un servizio al tipo di abbigliamento della clientela. A meno che, come anticipato, non si tratti di una questione di decenza pubblica. I cui standard sono indicati nel soprecitato Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, dove vengono rese note le condizioni dell’oscenità e le linee generali per il decoro. Si tratta di un testo comunque in continua evoluzione. Non è detto come un abbigliamento poco decoroso oggi possa essere considerato tale anche tra 30 anni, per esempio.
In poche parole, insomma, se l’abbigliamento rientra nella pubblica decenza il servizio non può essere vietato. Il ristoratore non ha nessun diritto per esercitare un eventuale rifiuto.
Qualora il cliente venga preventivamente informato del dresscode da rispettare, il ristoratore è legittimato a obiettare nel caso in cui l'abbigliamento non corrisponda agli standard richiesti? Tanti locali, fisiologicamente quelli di alta cucina, specificano in via preventiva nel loro sito come, per recarsi da loro, sia necessario attenersi a un particolare dresscode. Anche questo aspetto non sarebbe attuabile. Possono essere espresse delle indicazioni, ma non possono costituire un qualcosa di coercitivo.
Tutto, poi, è sempre legato al buon senso delle persone: in un ristorante tre stelle Michelin, in fin dei conti, chi si azzarderebbe a presentarsi in tuta o pantaloncini?